L’economia cinese sta crollando? Siamo di fronte a una crisi simile a quella innescata cinque anni fa dai mutui subprime negli Usa e poi allargatasi a tutto il mondo? Il fatto che l’informazione cinese sia opaca come da copione non fa che aumentare l’effetto panico, a cui i mercati sono notoriamente sensibili, così le borse calano a ruota di Shanghai, giù in questi giorni di un buon 20 per cento rispetto allo scorso maggio.
L’economia cinese sta crollando? Siamo di fronte a una crisi simile a quella innescata cinque anni fa dai mutui subprime negli Usa e poi allargatasi a tutto il mondo? Gli allarmi si sono ripetuti nell’ultima settimana, dopo le notizie, prima smentite e poi riconfermate, secondo cui la banca centrale cinese starebbe preparando un vero e proprio salvataggio delle banche in stile Usa 2009. Il fatto che l’informazione cinese sia opaca come da copione non fa che aumentare l’effetto panico, a cui i mercati sono notoriamente sensibili, così le borse calano a ruota di Shanghai, giù in questi giorni di un buon 20 per cento rispetto allo scorso maggio.
In realtà il problema esiste, ed esiste da tempo, ma non è ben chiaro a che livello sia l’allarme. I fatti.
Da circa una settimana, il mercato interbancario cinese – quello che si alimenta quando le banche si prestano soldi a vicenda – è sotto stress. I suoi tassi d’interesse sono schizzati fino alla doppia cifra, il che ha lasciato intendere che ci sia una crisi di liquidità in corso: le banche cercherebbero disperatamente di avere crediti dalle loro simili per colmare buchi di bilancio. Nell’occhio del ciclone ci sono le “big four”, cioè i principali istituti commerciali cinesi: Bank of China, Agricultural Bank of China, China Construction Bank e Industrial and Commercial Bank of China
La People’s Bank of China non ha rilasciato nessuna dichiarazione pubblica, le voci di default si sono diffuse e alcuni commentatori stranieri – i teorici dell’”hard lending cinese che prima o poi arriverà” – hanno cominciato a parlare di un caso Lehman Brothers in salsa di soia. Il melodramma è stato alimentato martedì mattina da un articolo dell’ufficialissimo Quotidiano del Popolo, che si è sbilanciato nell’inquietante affermazione secondo cui la banca centrale e, più in generale, la leva politica nell’azione di regolamentazione finanziaria, non sono “balie” e non devono preoccuparsi di salvare il mercato. Anche oggi la borsa è in calo, con i titoli bancari a trascinare giù gli altri in un abbraccio mortifero.
Il problema è che in Cina circola tanta liquidità, ma circola male. Lo Stato, attraverso le banche oggi nell’occhio del ciclone (di Stato pure loro), eroga denaro che finisce in investimenti speculativi o, comunque, improduttivi. Una massa che, oggi si dice, ha ormai raggiunto il 200 per cento del Pil ed è in costante crescita. La colpa, se di colpa si può parlare, è sia dei debiti aziendali sia di quelli dei governi locali.
Il tessuto delle piccole imprese cinesi, che ha alimentato il boom basato sull’export degli ultimi trent’anni, è oggi in difficoltà di fronte alla riduzione degli ordini dall’estero. Per cui, per sopravvivere, i piccoli imprenditori chiedono prestiti. Dato che le banche difficilmente glieli concedono, loro ricorrono al cosiddetto “sistema bancario ombra”, i prestiti informali concessi a titoli di strozzinaggio da altri soggetti privati. Tale credito non produce però più profitti, serve solo a tenere in vita piccole imprese che producono merci a basso costo non più commerciabili.
In parallelo c’è il problema dei governi locali, che hanno da parte loro la necessità di erogare la maggior parte dei servizi sul territorio e che sono cronicamente in rosso. Ottengono così credito dalle banche, che finisce però inevitabilmente in progetti infrastrutturali e in grandi speculazioni immobiliari, nel mattone e nel cemento, perché capaci nell’immediato di colmare il buco nelle casse pubbliche (e di riempire le tasche sotto forma di mazzetta). Ma sono tuttavia fallimentari nel dare alla Cina una struttura economica efficiente sul lungo periodo.
Il tratto comune consiste nel fatto che, sia che si tratti di credito “ufficiale” sia che si tratti di quello “ombra”, i soldi arrivano quasi sempre dalla stessa fonte: le banche di Stato, appunto. Perché? Perché chi ha accesso a tale credito – manager delle grandi imprese pubbliche, amministratori locali, businessmen con i “canali giusti” – tende a gettarlo nel buco nero della speculazione immobiliare: la ricetta sicura, il bene rifugio. Quindi tutto finisce sulle spalle degli istituti di credito che ora, pare, stanno adottando tecniche finanziarie d’importazione piuttosto avventate – che per il solito tic del linguaggio vengono invece chemate “prodotti innovativi” – per prestarsi soldi e coprire buchi a vicenda.
Il governo di Pechino reagisce anche politicamente: negli ultimi tempi è stata accentuata la campagna anticorruzione in vigore dall’autunno scorso e il presidente Xi Jinping non lesina certo sui richiami alla “correttezza” degli amministratori e dei membri del Partito. Non a caso, i procedimenti giudiziari hanno recentemente preso particolarmente di mira alcuni banchieri eccessivamente “disinvolti”. Ma l’appello a una moralità più elevata non funziona senza una solida base materiale. Il problema è la trasformazione dell’intero sistema produttivo cinese: convincere cioè chi maneggia denaro a investirlo in innovazione, prodotti ad alto valore aggiunto, attività competitive; che restituiscano profitti. Perché ciò si verifichi è necessario tempo, mentre il credit crunch incombe. Non è escluso quindi che Pechino si adoperi nel frattempo in qualche salvataggio di banca boccheggiante. Preventivo e mirato. Del resto, l’Occidente insegna.
[Scritto per il Fatto Quotidiano; foto credits: www.wsbtv.com]