Le foto circolate sul web li ritraggono fianco a fianco in abiti bianchi e capo coperto da un velo bianco: a sinistra l’emiro di Jiwa, distretto di Abuja, la capitale della Nigeria. A destra Kong Tao, 34 anni, ingegnere di nazionalità cinese e dal mese scorso nuovo capo tribù locale.
Può sembrare strano e in effetti quella di Kong non è storia usuale. Comincia nove anni fa, quando lasciata Puyang, nella provincia cinese dello Henan, l’ingegnere viene spedito dal proprio datore di lavoro in Africa per supportare la realizzazione di un progetto ferroviario. Da allora, secondo il quotidiano cinese Dahe Daily, il suo team ha costruito due importanti ferrovie ad Abuja, riparato due strade statali, eretto tre edifici scolastici e realizzato un campo da calcio per un altro villaggio. Importanti contributi allo sviluppo infrastrutturale e alla creazione di nuovi posti di lavoro per le comunità locali che l’emiro Alhaji Idris Musam ha voluto premiare con la simbolica onorificenza. Simbolica, sì, perché la carica di capo tribù – seppur permanente – costituisce “un onore e una responsabilità” ma non prevede alcuna ingerenza diretta nella gestione degli affari locali.
“La Cina sta esercitando un’influenza maggiore [in Africa] e le popolazioni locali … vogliono mantenere buoni rapporti”, spiega al Beijing Times Kong, che oggi è general manager della divisione operativa della filiale nigeriana della China Civil Engineering Construction Corporation, una delle locomotive della lunga marcia cinese nel continente.
Vero per metà. Se infatti la presenza cinese in Africa è ormai un argomento ricorrente sulla stampa internazionale, generalmente lo è per i frequenti episodi di scarsa integrazione, mancato rispetto delle norme ambientali e incuranza nei confronti delle condizioni economiche dei paesi target. Secondo Jubilee Debt Campaign, contando per il 20% del debito estero complessivo, Pechino è il primo creditore del continente. Mentre la narrazione mainstream si rivela spesso superficiale, va riconosciuto che negli ultimi anni il gigante asiatico si è impegnata a ricalibrare il proprio business sulla base delle esigenze locali in risposta alle accuse occidentali di “neocolonialismo”. E se alle nostre latitudini l’attivismo cinese nei paesi emergenti suscita non poche alzate di sopracciglio, in patria viene esaltato per la sua conclamata natura “win-win”.
L’opinione pubblica sembra apprezzare. La storia di Kong ha generato più di 180 milioni di visualizzazioni, circa 10.000 commenti, e svariati like sul Twitter cinese Weibo. Eppure l’ingegnere di Puyang non è il primo cinese a balzare agli onori della cronaca per la sua operosità. Solo lo scorso dicembre, Li Manhu, dipendente della filiale nigeriana della statale CGCOC Group, aveva ricevuto lo stesso titolo dall’emiro di Etung, nello stato meridionale di Cross River. Secondo la Xinhua, il 27enne era stato posto a capo della costruzione di un ponte transfrontaliero tra la Nigeria e il Camerun. Ma bisogna tornare indietro addirittura al 2001 per rintracciare il primo capo tribù di origine cinese. Si tratta di Hu Jieguo, ex insegnante di Shanghai, che lasciata la Cina nel 1975 si recò in Nigeria per lavorare nella fabbrica tessile del padre. Aperto un ristorante, nel corso degli anni l’uomo si è conquistato il plauso della comunità locale costruendo diverse scuole primarie.
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano online]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.