Di fronte alla rinnovata centralità del Mediterraneo e dell’Europa in generale – migrazioni, allarme terrorismo, populismi e crisi della Ue, nonché degli Stati Uniti, il baricentro dell’informazione globale si è spostato di nuovo verso Occidente, dopo anni in cui l’interesse verso la Cina e l’Asia tutta aveva aumentato l’attenzione verso quelle longitudini. Eppure, buona parte dei destini globali si giocano ancora lì: se non si può ormai ignorare il peso della Cina in ogni questione di importanza globale, anche India e Giappone vivono trasformazioni interne e scelte politiche inedite – talvolta bizzarre – che promettono di avere ricadute a livello internazionale. Le due Coree sono in ebollizione per motivi diversi, e poi c’è il Sudest asiatico, così rimosso dall’immaginario collettivo (a parte quello turistico), eppure così in fermento.
Due luoghi su tutti: le Filippine dello «sceriffo» Duterte – perfetta materializzazione del «nuovo leader» populista – e la Birmania, dove la «politica dello struzzo» di Aung San Suu Kyi di fronte ai conflitti etnici getta l’ennesima ombra sulla narrativa democratica. Ecco una panoramica su quanto successo in Asia nel 2016, inclusi i principali temi da seguire nei prossimi mesi.
Cina
Consolidare il potere politico contro le resistenze interne e gli influssi destabilizzanti in arrivo dall’esterno: questa è la ricetta con cui Pechino ha tentato di arginare le insidie e gli imprevisti offerti dall’anno della Scimmia. La campagna anti-corruzione, giunta al suo quarto anno, ha scavalcato quota un milione di inquisiti tra quadri e alti funzionari, mentre Xi Jinping (già presidente della Repubblica Popolare, segretario generale del Partito comunista cinese e capo della Commissione militare centrale) ha rafforzato la propria posizione diventando «core leader».
Un riconoscimento che lo accomuna a Mao e Deng Xiaoping, e che arriva a un anno dalla fine del primo mandato quinquennale (da Mao in poi, per tradizione la durata di un governo è di dieci anni). Il diciannovesimo congresso del Partito, in agenda per il prossimo autunno, farà da spartiacque e vedrà un rimpasto sostanziale ai vertici della gerarchia comunista. Salvo deroghe alle norme consuetudinarie, tutti i membri del potentissimo comitato permanete del Politburo (tranne Xi e il premier Li Keqiang) dovranno lasciare il loro incarico per sopraggiunti limiti di età. Da primus inter pares, il presidente necessita di avere attorno a sé uomini fidati affinché le proprie politiche vadano a segno in modo, eventualmente, da proiettare la propria influenza anche oltre il 2022.
Da qui, il recente posizionamento di alcuni sodali in ruoli chiave (nell’esecutivo e nell’esercito), sebbene non siano ancora pervenuti suggerimenti su un suo possibile successore. La tendenza accentratrice della leadership si colloca in un contesto di crescenti sfide, interne ed esterne. Mentre l’economia sembra trovare un punto di equilibrio, battendo ogni aspettativa, la natura della ripresa non convince gli esperti. Le tanto agognate riforme – di cui Xi è il principale sponsor e i quadri locali i veri oppositori – vengono frenate in nome della stabilità. Il nuovo modello di crescita medio-alto (tra il 6,5 e il 7%), basato su una ristrutturazione delle imprese di Stato improduttive, un taglio nella sovrapproduzione industriale e più consumi interni e servizi, fatica a farsi largo tra i timori di una nuova ondata di licenziamenti e le resistenze degli interessi costituiti.
A prevalere sono invece i vecchi metodi (investimenti e immobiliare, costantemente a rischio bolla), più funzionali nell’immediato e meno costosi in termini di posti di lavoro, ma ormai incapaci di rispondere all’erosione della manodopera dovuta al rapido invecchiamento della popolazione a cui l’introduzione della «politica dei due figli» (entrata in vigore il 1 gennaio) difficilmente riuscirà a mettere un freno. Ai cavilli di ordine domestico, si aggiungono le spinte centrifughe alla periferia dell’ex Celeste Impero. Il 2016 è stato l’anno del ricambio al vertice di Taiwan con la nomina dell’indipendentista Tsai Ing-wen a presidente della Repubblica di Cina, dopo anni di governo nazionalista e filocinese. La questione taiwanese quest’anno ha pesato più che mai sui rapporti tra Pechino e Washington, già tesi per via delle pretese territoriali del Dragone nel Mar Cinese Meridionale, tratto di mare conteso con altri vicini asiatici – alleati degli Stati Uniti – in cui transita oltre il 40% del commercio globale.
La vittoria di Donald Trump, seguita a stretto giro da un ambiguo corteggiamento ai vertici di Taipei (ancora sorretti militarmente dagli Usa ma scaricati politicamente nel 1979 a sostegno della Repubblica Popolare), getta diverse incognite sulla geometria dell’Asia-Pacifico così come sulla precaria cooperazione sino-americana, culminata a settembre nella ratifica, da ambo le parti, dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Agli scricchiolii di «una sola Cina» fanno eco gli smottamenti del modello «un Paese due sistemi», con Hong Kong sempre più polarizzata verso ambizioni indipendentiste e insofferente nei confronti dell’ingerenza cinese. Sarà la nomina del nuovo Chief Executive, il prossimo marzo, a determinarne una rinnovata fedeltà o, al contrario, una crescente disobbedienza.
Giappone
Tra le espressioni più rappresentative dell’anno che sta per finire, quest’anno c’è anche «Nihon shine!», crepa Giappone. Ovvero il titolo di un post scritto da una anonima madre al cui figlio era stato negato l’accesso a un asilo pubblico. Qualcuno lo ha notato e ha fatto partire una petizione sulla piattaforma change.org. «Costruite asili invece di buttare via soldi nelle Olimpiadi», lamentava l’autrice. Il post è diventato virale, e la questione è infine arrivata in un’aula parlamentare. Presente anche il primo ministro Shinzo Abe, colui che dal 2013 sostiene la creazione di una società «dove tutte le donne possano risplendere».
La popolazione giapponese invecchia a ritmi sempre più sostenuti. La progressiva precarizzazione del lavoro e la scarsità di strutture pubbliche per l’infanzia disincentivano le nascite. Con il risultato che se già oggi i costi del welfare sono a livelli record, nel giro di pochi decenni potrebbero essere insostenibili. Il Giappone — uno dei paesi con l’aspettativa di vita più alta al mondo — potrebbe trovarsi senza chi possa accudire i propri anziani e pagare le tasse sufficienti per garantire loro una vita dignitosa.
A inizio 2016 Tokyo ha stilato misure demografiche d’urgenza che però, secondo gli esperti, potrebbero non bastare a contrastare il trend negativo. Pochi giorni fa è arrivata la conferma: il governo ha presentato il budget per il prossimo anno fiscale con notevoli tagli a welfare ed educazione. In crescita, invece, la spesa militare. Perché è sul rafforzamento della propria posizione nel mondo — anche militare — che Abe vuole costruire il Giappone del domani.
India
La demonetizzazione imposta dal governo Modi all’India lo scorso 8 novembre è stata una misura talmente titanica da adombrare qualsiasi altro evento occorso nel subcontinente nei dieci mesi precedenti. Per valutare il 2016 indiano e provare a immaginare cosa riserva il futuro, non si può che ripartire da qui. Partendo da un quadro roseo dell’economia nazionale, con previsioni di crescita del Pil ineguagliate tra i paesi in via di sviluppo, il ritiro forzato dell’86 per cento delle banconote in circolazione rischia di minacciare una delle economie più esuberanti del 2016.
L’India è ora alle prese col «credit crunch» più imponente e apparentemente insensato della storia recente, sta finendo di ritirare dalla circolazione tutte le banconote da 500 e 1000 rupie in uso nel paese fino alla mezzanotte dell’8 novembre scorso. Ultimo giorno utile per la conversione: 30 dicembre 2016. Inizialmente, la manovra è stata giustificata per colpire gli evasori fiscali ma, in realtà, pare avere come obiettivo primario lo spostamento dell’economia interna indiana verso un modello cashless: meno contanti, più carte di debito e pagamenti istantanei online. Una metamorfosi che ha come target la minoranza della popolazione indiana, intorno al 15 per cento, che detiene però quasi il 90 per cento della ricchezza nazionale, spingendola verso una bancarizzazione delle proprie modalità di consumo con l’obiettivo di facilitare la tassazione, aumentare il gettito e ingrossare le casse dello stato, la benzina con cui alimentare l’economia nazionale in attesa che gli investimenti dall’estero inizino ad arrivare con più costanza.
Una metamorfosi che però, in un mese e mezzo, ha falcidiato la maggioranza degli indiani che di soldi da mettere in banca non ne ha, e che – a causa della demonetizzazione – deve affrontare la paralisi della circolazione di contanti. Lavoratori migranti costretti a tornare a casa, stipendi non pagati, file interminabili in banca per convertire i pochi risparmi in banconote fuori corso, con contestuale perdita di giornate lavorative. Un azzardo simile, secondo le principali agenzie di rating, rischierebbe di far perdere al paese tra lo 0,5 e i 3 punti percentuali di Pil per il prossimo anno.
Nasce così una crisi del contante che, secondo le stime della stampa nazionale, rischia di protrarsi almeno fino ai primi mesi del prossimo anno. Un’eventualità che metterebbe a repentaglio il successo dell’intera opera di governo di Modi, improntata sulla promozione del paese come meta per gli investimenti globali. Se la forzatura di Modi si tradurrà in un crollo dei consensi – cosa che, al momento, sembra improbabile – e in una crisi politica nazionale, lo si potrà vedere nella primavera del 2017, quando l’Uttar Pradesh (205 milioni di abitanti) andrà alle urne per le elezioni locali.
Le due Coree
L’anno della Scimmia doveva essere per la Corea del Sud l’anno delle riforme, del progresso sociale e dell’atteggiamento risoluto, ma aperto al dialogo, nei confronti del regime di Pyongyang. Perlomeno, questi erano gli auspici della presidentessa Park Geun-hye nel suo discorso alla nazione. A scandire il 2016 sono stati invece i due test nucleari condotti dai nordcoreani e la procedura di impeachement per la stessa Park, accusata di avere assegnato dei delicati affari di Stato a una confidente e ora in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sul suo caso. In mezzo ci sono stati gli scandali e gli errori che hanno zavorrato i grandi conglomerati industriali della quarta economia del continente: la Samsung è stata costretta a ritirare gli smartphone Note 7 per un difetto nelle batterie, il colosso della navigazione Hanjin ha presentato istanza di bancarotta, componenti del gruppo Lotte sono stati indagati per corruzione. Prossima alla destituzione, Park ha lasciato che restasse lettera morta l’impegno elettorale preso nel 2012, l’impegno di una politica della fiducia verso la Corea del Nord.
L’anno è iniziato con il test nucleare del 6 gennaio, con il quale la Corea del Nord ha annunciato la detonazione di una bomba all’idrogeno. Un traguardo nella corsa degli armamenti che non ha trovato conferme da osservatori esterni, ma che torna utile alla propaganda di regime. Un ulteriore test, il quinto in totale, è stato condotto a settembre. La bomba ha avuto una potenza di 10 chilotoni, la più alta mai stimata per gli esperimenti di Pyongyang. Ciò vuol dire che i nordcoreani stanno accumulando esperienza. Fonti militari giapponesi suggeriscono che sia solo questione di tempo (si parla comunque di alcuni anni) prima che Kim Jong Un e i suoi generali sviluppino la tecnologia necessaria a miniaturizzare le bombe per montarle su missili balistici, i cui test procedono di pari passo.
Il 2017 potrebbe quindi essere segnato da nuovi lanci ed esplosioni. Sul lato sud del 38esimo parallelo si andrà invece con molta probabilità a elezioni: lo scandalo Choi Soon-sil, la sciamana amica di Park che avrebbe guidato l’azione presidenziale estendendo la propria influenza fino al mondo dell’imprenditoria, ha portato ai minimi la popolarità del capo di Stato, scaricata da parte del suo stesso partito. Da ottobre decine di migliaia di persone manifestano ogni settimana per chiederne le dimissioni. E alla Casa Blu per il 2017 già si profila una presidenza di Ban Ki-moon, segretario generale uscente delle Nazioni Unite.
Filippine e Sudest Asiatico
In un’epoca che vede tornare gli uomini forti al governo, in Asia chi incarna questo genere di leader è il presidente filippino Rodrigo Duterte. I primi mesi al governo sono stati macchiati dai seimila morti tra tossicodipendenti e spacciatori nella campagna anti-droga che ricorre agli stessi metodi usati nella lotta contro la criminalità a Davao, città di cui è stato sindaco, dove la pratica degli omicidi extragiudiziari non è nata certo quest’anno. Ha offeso Obama, ha offeso il Papa nelle cattoliche Filippine e ha riallacciato i rapporti con la Cina, deciso a non fare troppe pressioni su temi sensibili, come le dispute territoriali e marine.
La spavalderia del presidente è stata in diverse occasioni corretta dai suoi collaboratori. Lo ha fatto ad esempio il ministro degli Esteri nel rimarcare che Manila si sarebbe attenuta a quanto stabilito a luglio dal tribunale arbitrale dell’Aja, che su ricorso della passata amministrazione filippina, aveva bocciato le pretese storiche di Pechino – la rivendicazione del controllo di gran parte del Mar Cinese Meridionale.
Nel riavvicinarsi ai cinesi Duterte si era infatti spinto un po’ troppo in là, sostenendo di volere accantonare la questione. Il 2017 sarà quindi un anno di possibili movimenti nel quadrante sudorientale dell’Asia, soprattutto nelle acque contese da Cina, Filippine, Vietnam, Malesia, Taiwan e Brunei. L’altro Paese da tenere d’occhio sarà il Myanmar. Al governo è arrivata l’icona della democrazia Aung San Suu Kyi. La transizione del regime iniziata nel 2011 rischia tuttavia di franare sulle discriminazioni contro i rohingya, popolazione musulmana cui è negata la cittadinanza, «il popolo più perseguitato del mondo» secondo l’Onu.
Spicca, in questa situazione, il silenzio assordante e lo scarso attivismo della stessa Suu Kyi. Il premio Nobel per la pace teme infatti di mettersi contro la frangia più oltranzista dei buddhisti, che costituiscono anche la base del suo partito. A tutto ciò si aggiungono le tensioni sul confine con la Cina, dove ha ripreso vigore la guerriglia separatista dei gruppi che non hanno accettato la tregua con il governo. Settori dell’esercito premono affinché sia proclamato lo stato d’emergenza, che darebbe ai militari il potere perduto con l’ascesa della Lega nazionale per la democrazia.
I militari hanno fatto sentire la loro influenza quando hanno impedito che una modifica alla costituzione li privasse del quarto dei seggi parlamentari cui hanno diritto per legge: forse non hanno abbastanza forza per imporre misure drastiche contro i separatisti, ma la situazione è in continua evoluzione.
[Scritto per il Tascabile]