Dopo quasi un mese dall’accordo di investimento bilaterale Ue-Cina, il Comprehensive Agreement on Investment (Cai), siglato il penultimo giorno del 2020 tra Pechino e Bruxelles, la Commissione europea ha divulgato il testo dell’intesa. E la tempistica è quanto mai sospetta, soprattutto se considerati i dubbi mossi dal Parlamento Ue sul rispetto dei diritti umani e dei lavoratori.
Le denunce della comunità internazionale e di diverse Ong per la repressione e violazione dei diritti umani in Cina, in particolare nella regione dello Xinjiang e a Hong Kong, sono sembrate secondarie rispetto alla necessità di fare entrare le aziende europee in settori dell’economia cinese finora protetti. Ma sarà proprio il Parlamento Ue a dover accendere il semaforo verde e approvare così il trattato.
Una ratifica poco scontata a causa delle perplessità degli europarlamentari sulla tutela dei diritti umani, nonostante Pechino si sia impegnata a ratificare le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), senza però precisare i tempi.
A complicare l’iter della ratifica è la Foreign Investment Law, la nuova norma cinese entrata in vigore il 18 gennaio che regolamenta il controllo degli investimenti stranieri in Cina, conferendo a Pechino il potere di bloccare ogni capitale considerato rischioso per la sicurezza nazionale. Ora la decisione è nelle mani del Parlamento Ue, ma la pubblicazione del testo del trattato potrebbe dare ragione a chi grida alla svendita dei valori europei.
La Sezione IV «Investimenti e sviluppo sostenibile» dell’accordo evidenzia le promesse fallaci dell’intesa: nel quarto articolo, dove si sottoscrive la volontà e la necessità di adottare e rispettare le convenzioni dell’Ilo, c’è l’esplicito riferimento ai punti 29 e 105 che indicano l’abolizione al lavoro forzato. Il sottotesto, però, ha un rilievo differente. Nelle poche righe non si legge un impegno di Bruxelles a esercitare una pressione su Pechino per la ratifica e il rispetto delle convenzioni.
Tuttavia, una inazione o scarsa attenzione sull’applicazione dei punti dell’Ilo è tollerata se accade in «buona fede», come si legge nell’articolo 2, comma 5 della suddetta sezione.
La parte più rilevante è quella relativa alle imprese statali. L’articolo 4 della Sezione II «Liberalizzazione degli investimenti» si concentra sul concetto di trasparenza. Infatti, «se una delle due parti ha motivo di credere che i suoi interessi commerciali siano compromessi dalle politiche statali, può chiedere informazioni sulla struttura organizzativa, consiglio di amministrazione e su quale ente sia il responsabile di quella società». Tradotto: l’Ue può ottenere dati sulla natura dell’intervento del governo cinese nelle imprese statali per evitare pratiche scorrette, facendo ricorso anche a un gruppo di esperti per sentire le ragioni della controparte.
Si tratterà di audizioni, aperte al pubblico e ai media, e si terranno a Bruxelles, se la parte lesa è la Cina, oppure a Pechino, se il danno l’ha subito un paese dell’Ue. Ma è ancora difficile stabilire chi trarrà realmente vantaggio dal trattato, nonostante i 7 anni di colloqui alle spalle e un rush finale segnato dalla vittoria della Germania, che il giorno dopo (31 dicembre) ha lasciato la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue.
Un paio di giorni fa gli europarlamentari, approvando una risoluzione che condanna la repressione di Pechino su Hong Kong, ha espresso rammarico sull’incapacità di Bruxelles di usare il Cai per proteggere l’autonomia e lo stato di diritto di Hong Kong. Si presenta impervio il percorso per l’approvazione del trattato.
[Pubblicato su il manifesto]Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.