Parola d’ordine: stabilità. È questa la religione laica, politica, professata dalla Cina e dalla sua diplomazia. Nonostante l’esibizione di muscoli nei mari cinesi orientale e meridionale – spesso a uso interno – Pechino agisce per preservare lo status quo, nella convinzione che solo un clima internazionale tranquillo possa consentire il prosieguo di quella “crescita pacifica” che è ormai un marchio di fabbrica.
Sulla vicenda ucraina, il Dragone agisce di conseguenza. Prima si è astenuto quando Usa e vassalli vari hanno cercato di far passare al Consiglio di Sicurezza Onu una condanna del referendum separatista della Crimea. Poi, ha fatto appello alla strategia che applica anche alle regioni più turbolente del proprio territorio: congelare la situazione politica e nel frattempo dare sviluppo economico, investire, e vedrete che pian piano le cose si aggiusteranno da sole.
Il fatto è che il cuore di Pechino è con Putin, ma la testa e l’opportunità politica suggeriscono di non metterlo nero su bianco, perché legittimare il referendum della Crimea e sancire di fatto il diritto di un Paese ad annettersi un pezzetto di un altro, creerebbe un precedente su temi caldi come il Tibet e lo Xinjiang. Alla Cina non piace chi legittima gli Stati separatisti. La regola aurea della non intromissione nelle questioni interne altrui – professata e rivendicata a proposito delle proprie, di questioni interne – non può essere sacrificata per Putin.
Consapevole di questo, anche la diplomazia russa si è messa all’opera per garantirsi il sostegno almeno simbolico della Cina, senza costringerla a sbilanciarsi troppo. Per offrire a Pechino la possibilità di dire: “Stiamo con voi” senza rischi. Va perciò letta tra le righe la recente dichiarazione del ministro degli Esteri russo Sergej Viktorovič Lavrov, quella che i media di Mosca hanno ribattuto come appoggio indiretto della Cina:
“I nostri contatti con i partner cinesi hanno dimostrato che sono stati compresi non solo i legittimi interessi della Russia in tutta questa vicenda, ma che abbiamo una visione identica delle cause iniziali dell’attuale, profonda crisi in Ucraina”. Detta altrimenti, sia Russia sia Cina sono allineate nell’imputare al movimento di Maidan la destabilizzazione dell’Ucraina e la defenestrazione di un governo legittimamente eletto.
Sulla condanna delle “rivoluzioni colorate”, c’è totale allineamento tra Mosca e Pechino. I cinesi, e non solo la leadership, le guardano con diffidenza ovunque si verifichino. Non è un mistero che la situazione odierna in Medio Oriente e nel modo arabo più in generale, sia una delle migliori armi in mano alla propaganda del Partito per scongiurare “piazze Tahrir” a casa propria. Anche perché la “democrazia” viene spesso agitata dall’Occidente in base ai propri scopi: la si chiede per la Siria mentre si appoggia un golpe militare in Egitto. Insomma, in Cina ci si tiene stretti la propria “stabilità”, che almeno ha dimostrato di garantire solidi interessi materiali.
Ciò nonostante, Pechino non appoggerà mai formalmente le mosse russe. Si adatterà semplicemente a un nuovo status quo, cercando di capire cosa guadagnarci. Da un lato, il beneficio è evidente: la “linea del Piave” frapposta da Mosca all’espansione della Nato verso occidente, tutela anche la Cina. Ma non solo: la prima portaerei della Cina, la Liaoning, è made in Ucraina e ucraine sono alcune compagnie che forniscono tecnologie ai jet cinesi. Se il Paese entrasse compatto nel sistema Nato-Ue, questo legame strategico verrebbe meno per via dell’embargo sugli armamenti nei confronti di Pechino.
D’altra parte, alcuni ambienti diplomatici cinesi non disdegnano un ipotetico riavvicinamento con Washington, che deve tenersi buona Pechino in funzione antirussa, simile a quello avvenuto dopo l’11 settembre 2001. A quel tempo, un George W. Bush alla ricerca di alleati per la sua War On Terror. assecondò la Cina che intendeva inserire il Movimento Islamico del Turkestan Orientale – gli indipendentisti uiguri dello Xinjiang – nel listone delle organizzazioni terroristiche internazionali. E la stampa corporate atlantica ammorbidì improvvisamente le proprie critiche alla Cina su temi come i diritti umani e la democrazia.
Inoltre, pur senza darlo a vedere, Pechino guarda con una certa apprensione al nuovo attivismo putiniano, che dopo l’Ucraina potrebbe puntare a riportare sotto l’ombrello russo gli Stati ex sovietici dell’Asia Centrale. Tutti Paesi in cui la Cina ha fior fiore di investimenti e su cui scommette per l’approvvigionamento energetico. Tuttavia, nel complesso, l’ago della bilancia cinese pende verso Mosca. È il segreto di Pulcinella, ma la Cina continuerà a non gridarlo ai quattro venti.
[Scritto per Lettera43]