Terza puntata della collaborazione tra China Files e Istituto Affari Internazionali. “Dall’Atlantico al Pacifico”: ogni due mesi un mini dossier con diverse analisi sugli ultimi sviluppi delle relazioni tra Stati Uniti, Cina e il resto dell’Asia – (1a uscita, febbraio 2021) – (2a uscita, maggio 2021)
Gli altri contenuti del dossier: – Le nuove sfide sulla sicurezza asiatica (Lorenzo Lamperti) – Le relazioni tra Stati Uniti e Filippine: tra alleanza storica e recente allontanamento (Paola Morselli)
La regione dell’Asia-Pacifico ha da tempo espresso il bisogno di ammodernare il proprio sistema infrastrutturale. Basti pensare che nel 2017 l’Asian Development Bank stimava che sarebbe stato necessario un investimento annuale complessivo di 1,7 trilioni di dollari nei settori trasporti, energia, acqua e servizi igienici e telecomunicazioni per permettere alla regione asiatica di mantenere i suoi sostenuti tassi di crescita ed eradicare la povertà, fornendo al contempo un’adeguata risposta al cambiamento climatico. La crisi pandemica ha accentuato la necessità di intensificare gli investimenti mirati all’ammodernamento dei sistemi infrastrutturali, per dare nuovo slancio alle economie e mitigare gli effetti della pandemia in corso.
Diversi sono gli attori che mirano a soddisfare tale bisogno infrastrutturale il cui valore supera 40 trilioni su scala globale, secondo le stime della Casa Bianca. Con l’annuncio e l’esplosione della Via della Seta (BRI) l’attenzione si è spostata quasi interamente sugli investimenti cinesi. Il risultato è stato che altri investitori hanno ricevuto meno attenzioni, nel bene e nel male. Per quanto sia vero che la Cina è diventata il principale partner commerciale di molti Paesi dell’area, nonché importante fonte di investimenti, non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti, così come il Giappone, continuano ad essere un attore fondamentale.
Già nel novembre 2019, in occasione dell’Indo-Pacific Business Forum in Thailandia gli Stati Uniti, affiancati da Giappone e Australia, avevano lanciato il Blue Dot Network, un sistema di certificazione volto a guidare gli investitori internazionali nella scelta dei progetti di qualità verso i quali incanalare i propri capitali. L’iniziativa mette in piedi una rete multi-stakeholder che unisce istituzioni pubbliche, enti privati e organizzazioni della società civile in uno sforzo teso alla realizzazione di grandi progetti infrastrutturali, nel rispetto degli standard di trasparenza, sostenibilità e impatto ambientale, in linea con i principi del G20 per gli investimenti infrastrutturali di qualità, gli IFC Performance Standards e gli standard dell’OCSE.
Il G7 di quest’anno ha rappresentato l’occasione perfetta per elevare il progetto ad un vero e proprio partenariato “guidato dalle principali democrazie”. Con l’annuncio del Build Back Better World (B3W), Washington non fa segreto di ambire ad offrire un’alternativa di qualità alla BRI, la quale in più occasioni ha lasciato disattese le aspettative dei paesi coinvolti, venendo recentemente travolta da un’ondata di scetticismo e disappunto. Scetticismo soprattutto percepito nella sfera occidentale. L’iniziativa a guida statunitense sulla carta sembra tenere conto delle lezioni apprese dagli insuccessi del competitor cinese, in quanto pone – quantomeno formalmente – significativa attenzione a quegli stessi temi che all’interno dell’enorme progetto infrastrutturale di Pechino risultano opachi o motivo di preoccupazione. Quali ad esempio il poco rispetto per l’ambiente, la mancanza di trasparenza e i dubbi benefici per i paesi riceventi; per non parlare delle preoccupazioni legate alla cosiddetta trappola del debito, siano esse fondate o meno.
E’ presto per valutare se il B3W porterà ad un effettivo aumento ed upgrade degli investimenti USA in Asia. All’infuori dell’annuncio ufficiale avvenuto durante il G7, abbiamo poche altre informazioni sulla forma che prenderà l’iniziativa. Nel frattempo, i firmatari europei hanno a loro volta approvato il proprio progetto di connettività asiatico, “A Globally Connected Europe”. L’iniziativa europea porta il numero di progetti infrastrutturali con focus asiatico a tre. Sebbene la BRI sia il più sviluppato dei tre, tutti condividono simili ostacoli, tra cui la disponibilità di fondi, l’effettiva connessione tra i vari progetti e la loro sostenibilità non solo dal punto di vista climatico ma anche infrastrutturale – una volta costruite, le infrastrutture vanno gestite e mantenute. Per quanto riguarda i paesi occidentali, il problema della disponibilità di fondi è tutt’altro che secondario. Il B3W ha dimostrato che c’è volontà politica dietro al progetto, ma Biden sta già facendo fatica ad ottenere l’approvazione per lo stanziamento di fondi volti a sviluppare infrastrutture all’interno degli Stati Uniti, figuriamoci all’esterno. L’UE si vede ora in difficoltà a finanziare persino il Next Generation EU dopo aver messo in pausa una parte degli strumenti che le avrebbero permesso di raccogliere i propri fondi. Per questo la menzione di investimenti privati in entrambe le iniziative. Tuttavia, i privati sono stati storicamente avversi ad investire in zone a rischio. Elemento che invece ha caratterizzato gli investimenti cinesi, fino ad ora.
Se davvero il progetto statunitense dovesse materializzarsi, gli stati riceventi si troverebbero di fronte a una situazione allo stesso tempo invidiabile e pericolosa. Invidiabile perché potrebbero ottenere investimenti da più parti e, in teoria, aumentare così non solo il capitale che viene iniettato nel paese, ma anche le possibilità di reale sviluppo infrastrutturale. Tuttavia, le crescenti tensioni geopolitiche e polarizzazione delle posizioni, divenute solo più evidenti in seguito al recente incontro tra la vicesegretaria di stato Wendy Sherman e il ministro degli affari esteri cinese Wang Yi, renderanno difficile per i paesi riceventi raggiungere una sintesi tra gli interessi di USA e Cina all’interno dei propri confini nazionali. La sfida dei paesi asiatici sarà cioè quella di ricercare un’efficiente armonizzazione tra progetti finanziati da potenze in crescente competizione.
Di Michelle Cabula e Francesca Ghiretti