Tsering Woeser. Memorie di una tibetana per bene

In by Simone

Tsering Woeser – poetessa, scrittrice, blogger e punto di riferimento per tutti i tibetani – racconta a China Files la sua infanzia e la sua graduale presa di coscienza del suo essere tibetana. Ripercorre assieme a noi l’educazione rivoluzionaria e la scoperta di internet; la fede nel buddhismo lamaista e gli arresti domiciliari.
«Mandare in fiamme la [propria] preziosa vita nel XXI secolo significa mostrare al mondo la sofferenza di sei milioni di tibetani privati di diritti ed eguaglianza».

Dal 2009 Tsering Woeser raccoglie sul suo blog le testimonianze di quegli uomini e quelle donne tibetane che hanno scelto la via dell’autoimmolazione per protestare contro la situazione in cui sono costretti a vivere sotto il Partito comunista cinese. Un lavoro che a marzo di quest’anno le è valso il premio internazionale Women of Courage.

Poetessa e scrittrice per tre quarti tibetana, è nata a Lhasa nel 1966 ma è cresciuta nella Cina sudoccidentale dove ha ricevuto un’istruzione in tutto e per tutto cinese. Quando nel 1990 è tornata in Tibet ha riscoperto gradualmente la sua identità fino a diventare un simbolo e un punto di riferimento per tutti i tibetani.

Nel 2004 ha dovuto abbandonare la sua terra a seguito della pubblicazione del libro Appunti tibetani. Da allora vive a Pechino, dove di tanto in tanto subisce arbitrari arresti domiciliari. La incontriamo il 24 marzo, in uno Starbucks. Nella capitale della Repubblica popolare è una rara domenica di sole e sono solo pochi giorni che lei è di nuovo in libertà.

Ti sei sempre sentita tibetana?

Ho fatto le scuole nel Kham, una regione a maggioranza tibetana della Cina sudoccidentale. In classe eravamo han e tibetani, ma tutte le lezioni si svolgevano in cinese. All’epoca pensavo che non ci fosse nulla di strano. Ricevevamo “l’educazione rivoluzionaria”, un continuo lavaggio del cervello. Quando compilavo i moduli scrivevo “etnia tibetana” ma quasi non ci facevo caso. Le superiori le ho fatte a Chengdu. Lì mi sono resa conto che c’erano altre etnie e che la minoranza tibetana era diversa dalle altre. In città erano tutti han. Spesso mi chiedevano da dove venivo e io rispondevo contenta che ero tibetana. “Ah – ribattevano loro – quelli sono dei selvaggi”.

Quando hai cominciato a farti un’idea della storia del Tibet?

All’epoca non avevamo libri, e neanche c’era internet. Ho dovuto finire l’università e cominciare a lavorare come giornalista, prima di imbattermi in un libro che parlava di Tibet. Un libro di un americano, Exile From the Land of Snows. Incredibile che lo avessero tradotto, poteva influenzare le masse! Infatti appena pubblicato venne proibito. Ma ormai era già in circolazione. Me lo prestò un amico. Raccontava della fuga del Dalai Lama e di come l’Esercito di liberazione era entrato a Lhasa. Non potevo crederci!

Sapevo che il Tibet era stato liberato dal Partito comunista. Mio padre era un militare e io ero cresciuta nell’Esercito di liberazione. Glielo feci leggere, mi fidavo di lui. Quando lo finì gli chiesi quanta verità c’era in quel libro. “Il 70 per cento”, mi rispose. Mio padre non esagera mai. Diedi il libro a mio zio. Anche lui era un militare e aveva partecipato alla spedizione in Tibet. Quando finì di leggerlo gli feci la stessa domanda. “Il novanta per cento”, mi disse. Allora era vero, pensai. Ed era falso tutto quello che mi avevano fatto studiare. La prima frase che ho imparato a dire è “Viva il presidente Mao”, ci ho messo ancora molto tempo prima di capire che il Tibet non è Cina.

E poi?

Poi nel 1990 sono tornata a Lhasa, volevo tornarci. Ho lavorato per una rivista governativa di letteratura tibetana fino al 2004, quando mi hanno espulsa.

Te lo aspettavi che scrivere Appunti tibetani ti avrebbe creato così tanti problemi?

No, anzi. Ero molto contenta, il libro l’aveva pubblicato una grande casa editrice cinese. È uscito a inizio 2003. Io ero a Pechino quando scoppiò la Sars, così ci restai. E da lì venni a sapere che nel mio libro erano contenuti “gravi errori politici” e che si sarebbero dovuti prendere provvedimenti. Così mi fecero tornare a Lhasa, dovevo “rivedere i miei errori”.

Ora sorrido, ma allora fu terribile. Riunioni ogni giorno, o ammettevo i miei errori o sarei stata espulsa. Mi ricordo che pensai che anche se non avevo vissuto la Rivoluzione culturale la stavo sperimentando in quel momento. Le riunioni durarono una ventina di giorni. Andarono anche da mia madre che non smetteva più di piangere. In Cina è molto grave essere espulsi ma io non potevo ammettere che la mia fede nel buddhismo e nel Dalai Lama fosse sbagliata.

Quando hai cominciato a usare internet?

Nel 1999. All’epoca non c’era il Grande Firewall e si poteva navigare liberamene. Ma anche oggi, se si vuole conoscere la realtà, basta munirsi degli strumenti per aggirare la censura.

Quando è stata la prima volta che sei stata messa agli arresti domiciliari?

Da quando sono stata espulsa dal Tibet la mia libertà è andata via via scemando. Nel 2006 il mio blog è stato censurato e non mi hanno più fatto scrivere sulle riviste nazionali. Nel 2008 mi hanno messo per la prima volta ai domiciliari. Da allora è successo piuttosto frequentemente.

Cosa comporta essere agli arresti domiciliari?

Non è sempre uguale. L’anno scorso avevo una macchina parcheggiata sotto casa e se proprio dovevo uscire bisognava che mi accompagnassero. Quest’anno stazionavano proprio nel nostro pianerottolo. Nessuno può venirmi a trovare, fermano anche i corrieri con la posta. L’unica cosa buona è che fino ad adesso mi hanno lasciato usare internet.

Quando su Twitter scrivi “stanno arrivando i panda” ti riferisci a loro? Come fai a sapere in anticipo del loro arrivo?

In genere ci avvisano per telefono. Poi oramai quello che mi controlla lo conosco da quasi sette anni. So come si chiama e anche che nel frattempo ha fatto carriera. Avvisiamo su Twitter perché non sai mai quello che ti può capitare: possono “invitarti a bere un tè”, o arrestarti. A loro discrezione.

Vorresti lasciare la Cina?

Diciamo che vorrei avere un passaporto per muovermi liberamente ma non vorrei espatriare. Vorrei andare a trovare il Dalai Lama, quello sì. E tornare a Lhasa.

Ti è difficile tornare in Tibet?
Sempre di più. Ormai anche ai tibetani serve un permesso speciale. È come per voi stranieri. Ma come potrò ottenerlo io? Forse l’unica via è pregare il Buddha.

[Scritto per Left. Foto: Cecilia Attanasio Ghezzi]