Trump vuole negoziare il principio di «una sola Cina»

In by Gabriele Battaglia

Perché mai gli Stati Uniti dovrebbero obbedire al principio di «una sola Cina» senza un accordo che stabilisca in cambio concessioni commerciali e di altro tipo? Da bravo uomo di affari Donald Trump sembra voler barattare la questione taiwanese per ottenere qualche vantaggio nei settori in cui finora la leadership cinese è persa meno malleabile. Politiche monetarie, questione nordcoreana e Mar Cinese Meridionale in primis, come lo stesso tycoon ha dichiarato domenica ai microfoni di Fox News. «Non voglio che la Cina mi comandi», ha spiegato il presidente eletto giustificando la conversazione telefonica avuta con la leader taiwanese (filoindipendentista) Tsai Ing-wen il 2 dicembre contravvenendo al protocollo che vieta al presidente americano di intrattenere contatti diretti con i vertici di Taipei. Un principio valido fin dall’istituzione dei rapporti diplomatici con la Repubblica popolare nel 1979. «E’ stata una telefonata cordiale, ma breve. Non accettarla sarebbe stato molto sgarbato», ha chiarito Trump minimizzando l’accaduto.

Ma il piccolo inciampo diplomatico ha sempre più le sembianze di un vero e proprio sgambetto. Nonostante Pechino abbia affrontato la questione con pacatezza inusuale – dirottando le proprie ire contro Taipei, artefice del «tranello», e giustificando l’inesperienza politica dell’imprenditore americano – negli ultimi giorni il tentativo di ricucire lo strappo messo in atto dalla Casa Bianca e dal team di transizione è stato vanificato dallo stesso Trump con una serie di bordate sparate a mezzo stampa e via Twitter. Da ultima la messa in discussione dell’esistenza di «una sola Cina», principio interpretato in maniera diversa sulle due sponde dello Stretto di Formosa, ma che secondo Pechino starebbe a indicare l’appartenenza di Taiwan al Regno di Mezzo alla stregua di una provincia da riannettere anche con l’uso della forza. Una versione sulla quale Washington ha mantenuto una certa ambiguità con la sottoscrizione, tra il ’72 e l’82, dei tre comunicati congiunti, nonostante il documento delle «sei assicurazioni» (1982) riaffermi invece la determinazione degli Stati Uniti ad assistere l’isola nel mantenimento della propria capacità difensiva, come previsto dal Taiwan Relations Act del 1979. Da un punto di vista legale, infatti, il governo americano considera lo status di Taiwan «indefinito». Non accetta la sovranità cinese sull’isola, ma allo stesso tempo non riconosce la statualità di Taiwan sullo scacchiere internazionale, avvallando la posizione di Pechino. Un compromesso studiato per tutelare i propri interessi nell’Asia-Pacifico.

 

Proprio nel weekend nuove esercitazioni aeree cinesi nello stretto di Miyako e nel canale di Bashi, a sud dell’ex Formosa, hanno seguito con tempismo svizzero l’approvazione in Senato del National Defense Authorization Act (NDAA), un disegno di legge federale che oltre a includere un aumento di 3,2 miliardi di dollari nella spesa militare, prevede una disposizione per l’istituzione di scambi annuali ai vertici della Difesa di Stati Uniti e Taiwan. Ma la «guerra» sembra ancora un’ipotesi lontana.

Mentre presumibilmente Pechino conterrà la propria collera almeno fino al 20 gennaio (data dell’Inauguration Day), c’è chi crede che Trump stia bluffando per tastare il terreno prima di diventare ufficialmente il 45esimo presidente americano. D’altronde, durante il corso della storia il passaggio del testimone alla Casa Bianca è spesso stato preceduto da un fisiologico periodo di tensione tra le due potenze mondiali, cui ha fatto seguito una lento disgelo. E’ successo con Reagan alla vigilia della firma del comunicato congiunto sino-americano del 17 agosto 1982 con cui Washington si è impegnato a ridurre la fornitura bellica a Taipei, e di nuovo con Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, duri nei confronti di Pechino prima di assumere l’incarico, più propensi al compromesso una volta entrati nello Studio Ovale.

A scanso di equivoci, il portavoce del ministero degli Esteri cinese lunedì ha dichiarato che il riconoscimento di «una sola Cina è il «fondamento politico» dei rapporti bilaterali in assenza del quale «la robusta e stabile crescita delle relazioni sino-americane è fuori discussione». Nel 1980 la Cina contava per l’1 per cento dei commerci americani con l’estero; nel 2015 quel valore è aumentato 125 volte fino a raggiungere quota 627 miliardi di dollari. Secondo un’analisi del Wall Street Journal, un’eventuale guerra commerciale tra le due superpotenze colpirebbe soprattutto la Cina, che vedrebbe penalizzate non solo le proprie esportazioni ma anche i tentativi di fusioni e acquisizioni che sta compiendo negli States. Tuttavia a uscirne ammaccati sarebbero anche alcuni settori chiave dell’economia statunitense particolarmente dipendenti dallo shopping cinese, come l’aerospaziale e l’automotive. Come ha fatto notare Wang Jianlin, presidente del gruppo Wanda nonché uomo più ricco di Cina, «ho investito 10 miliardi di dollari negli Stati Uniti dando lavoro a oltre 20.000 persone. Se qualcosa [con Trump] va storto queste 20.000 persone potrebbero ritrovarsi senza un impiego».

«La politica di una sola Cina, non è qualcosa che può essere negoziato», spiega senza giri di parole il nazionalista Global Times. «Sembra che Trump sappia soltanto fare affari. Pensa che tutto abbia un prezzo. Forse dovrebbe studiare la politica estera con umiltà. In particolare, occorre che impari come funzionano i rapporto tra la Cina e gli Stati Uniti», rimbrotta lo spin-off dell’ufficialissimo People’s Daily, mettendo in risalto la facilità con cui l’inesperienza di Trump («ignorante come un bambino») rischia di lasciare ampio spazio ai falchi che lo circondano in qualità di consiglieri. Mentre la scelta del governatore dell’Iowa Terry Branstad – buon amico del presidente Xi Jinping- nel ruolo di ambasciatore americano in Cina potrebbe aiutare a disinnescare le recenti tensioni, non sono passate inosservate alla stampa internazionale le inclinazioni filo-taiwanesi di gran parte degli adviser del tycoon. Mentre il New York Times si è concentrato sui presunti investimenti sull’isola della Trump Hotels (uno dei numerosi conflitti di interessi del biondo magnate in giro per il mondo), la scorsa settimana Politico ha riportato nel dettaglio gli affari controversi di Bob Doyle, repubblicano e consulente del Taiwan Economic and Cultural Representative Office, l’ufficio che funge da ambasciata taiwanese negli States. Secondo tali indiscrezioni (smentite da Taipei), l’ex senatore sarebbe all’opera da mesi per tentare di oliare la partnership statunitense con il vecchio alleato asiatico. Ecco che dietro una semplice telefonata potrebbe esserci molto di più.