Un outsider è presidente del grande Paese sia partner sia rivale. Se prima del voto si parlava di sistema democratico in bancarotta e ci si preoccupava sull’imprevedibile Trump, oggi la Cina si prepara pazientemente a prenderne le misure. «Trump ha vinto. Dal 1953, è il primo presidente americano che non aveva mai ricoperto prima una carica ufficiale». Con questa arguta e lapidaria osservazione, l’agenzia Nuova Cina commenta a caldo il trionfo del tycoon statunitense nelle elezioni Usa.
La Cina è il maggiore partner economico degli Stati Uniti, ma anche il principale rivale geopolitico. È naturale quindi che le elezioni per lo studio ovale suscitassero interesse. Tuttavia, i dirigenti cinesi non prendono mai posizione sulle vicende politiche interne di altri Paesi. Questo è un principio della politica estera di Pechino. Da parte loro, i media ufficiali aspettano in genere qualche ora o giorno prima di esprimere commenti. Ma quel riferimento alla condizione di neofita che contraddistingue Trump ci dice molto sia sulla concezione della politica che va per la maggiore a Pechino e dintorni, sia sui timori dell’establishment cinese a risultati acquisiti.
Dire che Trump è il primo presidente a non venire dalla politica significa rivendicare il fatto che in Cina, invece, il potere si trasmette per graduale, lenta e ponderata cooptazione. E a sostenere quindi che la liberal-democrazia elettorale non funziona quando si tratta di governare la sempre maggiore complessità del mondo contemporaneo.
Già alla vigilia, gli editoriale delle due maggiori testate del Paese – l’agenzia Nuova Cina e il Quotidiano del Popolo – argomentavano che chiunque fosse uscito vincitore dalla disfida presidenziale sarebbe stato un «peggio», sia per gli Stati Uniti sia per il mondo. Ma soprattutto si ricordava come il modello democratico statunitense fosse in crisi: non più un sistema evolutivo in grado di sprigionare le forze migliori del Paese, bensì una competizione al ribasso tra due candidati che rappresentano errori e paure. I due partiti formalmente contrapposti avevano giocato sporco: quello democratico, boicottando dall’interno Bernie Sanders per garantire la vittoria della Clinton alle primarie; quello repubblicano, cercando in ogni modo di ostacolare Trump, senza riuscirci. E quindi Hillary ne era uscita come «candidata naturale» sia degli uni, sia degli altri, la donna che rappresenta un establishment incapace di riformare se stesso.
Un establishment che negli Stati Uniti esce oggi dalle elezioni con le ossa rotte. A Pechino, non vogliono correre lo stesso rischio.
Ma quali sono ora le paure per questo neofita della politica che occuperà lo studio ovale? Un sondaggio informale e anonimo condotto a ridosso del voto dalla rivista Foreign Policy tra funzionari cinesi di medio-alto grado sembrava indicare una netta preferenza per una vittoria della Clinton. Certo, da segretario di Stato Hillary aveva sempre mantenuto una linea dura verso la Cina; fu una degli artefici di quale «pivot to Asia» sbandierato da Obama, con cui si intendeva contenere l’espansione degli interessi cinesi nel continente eurasiatico e nei mari sottostanti. Ma da lei si sa cosa aspettarsi, da Trump no. Lui è l’outsider, il potenziale generatore di caos.
«La Clinton sarà molto dura con la Cina» lamentava un alto funzionario citato da Foreign Policy. Ma quando gli è stato chiesto di Trump, lo stesso funzionario non è riuscito a soffocare un sorriso. «Noi non siamo in grado di gestire Trump».
La Cina cerca prevedibilità, Trump è una mina vagante. Da domani, si cercherà di prendergli le misure.
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