Trump sta regalando l’Asia alla Cina?

In Cina, Relazioni Internazionali by Simone Pieranni

Qualche giorno prima dello storico summit tra Kim Jong-un e Donald Trump, a Singapore si sono svolti i lavori dello Shangri-la Dialogue, l’assise più importante riguardo la sicurezza in Asia. Uno degli argomenti più importanti dei dialoghi è stato sicuramente il tema delle acque contese nel Mar Cinese meridionale, una zona di mare fondamentale per il commercio, le risorse e la pesca, di recente sempre più militarizzato dalla Cina, nonostante le resistenze di molti dei Paesi asiatici.

Allo Shangri-la Dialogue il tema è stato toccato in modo esplicito solo dagli Stati Uniti: altri Paesi, come Vietnam e Filippine, che con la Cina hanno contese di natura storica su alcune isole e porzioni di quel mare, hanno citato la questione solo in maniera indiretta, senza mai nominare Pechino.

La sensazione, infatti, è che la recente politica ondivaga di Trump — ammessa perfino dallo stesso generale James Mattis, segretario alla Difesa Usa — abbia disorientato molti Paesi asiatici vicini a Washington, portandoli su posizioni ambigue: da un lato denunciano a bassa voce la Cina per la sua prepotenza nel militarizzare atolli e occupare aree che vengono rivendicate, dall’altro tengono la porta aperta a Pechino nella convinzione che in questo momento solo la Cina possa garantire quella benzina economica necessaria al progresso del proprio Paese, visto il disimpegno americano alla luce delle parole di Trump, secondo il quale la sicurezza garantita dagli Usa dovrà essere pagata.

Un esempio recentissimo: il Giappone ha rinominato Taiwan, “China Taiwan” nel proprio sito in cinese della compagnia nazionale aerea: un segnale clamoroso da parte del Paese che storicamente è il principale rivale della Cina nell’area.

Ma si tratta di un clima più generale registrato negli ultimi tempi.

Il più chiaro di tutti, ancora una volta, è stato Duterte: nonostante una sentenza internazionale abbia condannato la “teoria dei nove punti” di Pechino, dando ragione a Manila — l’istanza, però, venne richiesta dalla presidenza precedente — il leader filippino ha dimostrato ampie aperture nei confronti della Cina, specie per raccogliere finanziamenti per infrastrutture di cui necessita il Paese, domandandosi sarcasticamente: «Se arrivassi a uno scontro diretto con la Cina, cosa farebbero gli Usa?». Una domanda retorica per mostrare la poca fiducia nel tradizionale alleato di Manila.

Pechino, di fatto, ha supportato la guerra alla droga di Duterte e il presidente filippino sembra vedere proprio nella Cina la chiave per realizzare la sua politica fondata sul “Build, build, build”.

Proprio le Filippine, però, rappresentano un valido esempio dell’attuale ambivalenza di alcuni Paesi asiatici su Cina e Usa. Da un lato si apre in modo chiaro e netto a Pechino, dall’altro si devono gestire alcune resistenze che arrivano da apparati che ancora contano, nonostante le narrazioni occidentali su questi Paesi schiaccino le complessità interne, attribuendo responsabilità e potere solo ai politici più in vista.

Richard Heydarian, accademico con base a Manila e osservatore di quanto accade in quel Paese, di recente su Nikkei Asian Review ha scritto un commento dal titolo Manila elite split over Duterte’s China policy, nel quale descrive i movimenti dell’elite militare filippina: emerge uno scetticismo nei confronti dell’azione di Duterte da parte di una componente costituzionale che ha molto più potere di quanto si possa pensare, anche nel limitare l’azione di un personaggio carismatico come Duterte.

Secondo Heydarian, membri delle forze armate filippine hanno sottolineato in più occasioni la necessità di non dimenticare la propria sovranità: nonostante le sparate anti americane di “Du30”, ad esempio, la marina filippina ha ripreso contatti e volontà di esercitazioni con la controparte americana. «La difesa filippina, così come parte dei media» scrive Heydarian «non condividono in pieno la visione di Duterte. Questi soggetti vedono la Cina come una costante minaccia all’integrità territoriale filippina». Non a caso il Segretario della difesa filippina Delfin Lorenzana ha specificato che le Filippine «Devono prepararsi per contrastare l’emergere di minacce marittime alla propria sicurezza». Non ha citato esplicitamente la Cina ma il riferimento era molto chiaro.

Analoga situazione è quella vietnamita: nonostante la comune guida comunista dei due Paesi, il Vietnam ha sempre mantenuto una posizione molto dura rispetto alle mosse cinesi nel Mar Cinese meridionale ma allo stesso tempo, sempre a Shangri-la, Hanoi ha tenuto a sottolineare come Washington non possa essere considerato un alleato, nonostante la portaerei americana arrivata tempo fa in Vietnam, di cui avevamo scritto su eastwest.eu.

A conferma di questa politica indecisa anche da parte del Vietnam ci sono gli accordi commerciali con Pechino e le proteste scoppiate nel Paese contro la zona economica speciale inaugurata che favorirebbe troppo gli interessi cinesi.

Infine, in mezzo a questo confronto serrato, peserà e non poco l’evoluzione della crisi coreana, un processo che potrebbe favorire ancora di più la posizione cinese, avvicinando a Pechino anche Seul.

 

[Pubblicato su Eastwest]