Mentre le sorti del divieto di Trump sui Paesi islamici sono nelle mani della magistratura, c’è chi già ha in mente come capitalizzare le nuove politiche securitarie americane. Entro il 2020 l’industria halal, termine che indica tutto quello che è «lecito» secondo l’Islam, arriverà a coinvolgere 150 milioni di viaggiatori. Che l’Asean punta ad attirare sempre più nel Sudest asiatico. Intanto i viaggiatori dell’Asia Pacifico iniziano a sospendere le partenze verso gli Stati Uniti e calano le application degli studenti asiatici interessati a corsi di lingua.
Mentre Donald Trump chiude le porte ai paesi arabi, l’Asean le spalanca. Le 10 nazioni del Sudest asiatico che compongono l’organizzazione regionale si dicono pronte a capitalizzare le recenti restrizioni sugli ingressi negli Stati Uniti volute dal neopresidente americano, e sospese dalla Corte d’Appello di San Francisco. Il blocco prevede – oltre alla sospensione dell’accoglienza ai rifugiati per 120 giorni e ai siriani «sine die» – 90 giorni di stop agli arrivi di cittadini di Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Una misura che – se approvata dalla Corte Suprema – ci si attende dirotterà parte del turismo arabo verso i paesi asiatici, più accoglienti e accomunati dalla fede in Allah.
L’Islam è la religione più praticata nel Sudest asiatico, con 240 milioni di seguaci – pari al 40 per cento della popolazione – concentrati soprattutto in Brunei, Indonesia, Malaysia e alcune regioni di Thailandia e Filippine. «Mentre il mondo si avvia verso un maggior isolazionismo, per l’Asean è il momento di facilitare l’arrivo di turisti», ha dichiarato martedì via Twitter Tony Fernandes, fondatore e amministratore delegato di AirAsia, compagnia aerea a basso costo con base a Kuala Lumpur. Proprio la Malaysia nel 2016 si è attestata tra le destinazioni favorite dal Medio Oriente, con 200mila visitatori provenienti da paesi quali Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Iraq e Qatar. Oltre ai viaggi tradizionali, ad attrarre nuovi arrivi ci pensano il turismo medico e l’industria halal, termine che sta a indicare tutto quanto ritenuto lecito secondo l’Islam, dall’abbigliamento al cibo.
Secondo CrescentRating, principale authority del turismo Muslim-friendly, entro il 2020 l’industria halal arriverà a coinvolgere 150 milioni di viaggiatori, per un giro d’affari di 200 miliardi di dollari, pari all’11 per cento del valore del turismo globale. Un’opportunità a cui non hanno saputo dire no nemmeno le Filippine – unico paese asiatico a maggioranza cattolica insieme a Timor East – impegnate dal 2015 in un massiccio progetto (il Philippines Halal Tourism Project) volto a istituire almeno 50 stabilimenti certificati in tempo per il Madrid Fusion Manila, evento gastronomico internazionale previsto per il mese di aprile.
«Il Medio Oriente rappresenta un grande mercato», conferma ai microfoni della Reuters l’Ente Nazionale per il Turismo Thailandese, sottolineando le lucrose opportunità fornite dal turismo medico che secondo l’organizzazione americana Patients Beyond Borders cresce ogni anno del 25 per cento e coinvolge 11 milioni di persone, di cui quasi un terzo diretto verso il Sudest asiatico. Le necessità variano da una ricerca di terapie a costi più contenuti a quella di cure non reperibili nel paese di provenienza, come la medicina halal, che non prevede l’impiego di derivati del maiale. Mentre la maggior parte dei pazienti giunge da altri Stati membri del blocco Asean, il Medio Oriente rappresenta già la seconda principale area di provenienza, con gli Emirati Arabi a fare da traino per quanto riguarda l’affluenza presso le strutture sanitarie più lussuose della Thailandia. E per i primi tre mesi del 2017 ci si attende una crescita su base annua dell’8 per cento.
Se per la U.S. Travel Association nessuno dei paesi colpiti dalle politiche securitarie di Trump risulta nella top 20 dei principali mercati turistici americani, i disagi degli ultimi giorni, tuttavia, non interessano soltanto lo scacchiere mediorientale. Molti viaggiatori dell’Asia-Pacifico sono già alla ricerca di mete meno problematiche. Specie da quando si è diffusa la notizia del coinvolgimento di un cittadino cinese e uno malese, rimasti bloccati alcuni giorni fa presso l’aeroporto internazionale JFK di New York, nonostante la Malaysia e la Cina non compaiano nella lista nera dei paesi «portatori di terrorismo».
«Quando si viaggia, specialmente per piacere, si vuole stare tranquilli», spiega alla Reuters Alicia Seah dell’agenzia singaporiana Dynasty Travel, e «molte persone dirette verso gli Stati Uniti tra marzo e aprile stanno sospendendo la partenza”. Alcune opteranno per destinazioni alternative come Australia, Nuova Zelanda e Canada. Lo stesso vale per i soggiorni studio. Nel periodo 2014-2015, gli studenti asiatici negli States hanno raggiunto quota 736mila, pari al 76 per cento del totale degli studenti stranieri. Ma negli ultimi tempi il numero delle application ricevute dalla società australiana Navitas per corsi di lingua negli Stati Uniti è diminuito drasticamente. «La vittoria di Trump mi ha spinta a riconsiderare l’idea di studiare negli Stati Uniti». racconta Aulia Adila, ventiquattrenne di Jakarta, «andare in America è sempre più impossibile e poco sicuro».
[Pubblicato su Il Fatto quotidiano]