Il poeta vietnamita è stato arrestato più di 10 volte per aver denunciato corruzione e abusi
Nella sua opera più celebre, Doi Ban Tu, racconta la storia di “due compagni in prigione”, vittime di un sistema legale kafkiano e delle inumane condizioni del carcere. Un luogo che lui conosce bene, visto che dal 1978 è stato arrestato più di dieci volte. Tran Duc Thach, nato nel 1952, compirà con ogni probabilità i suoi 70 anni in cella. Thach è uno dei poeti più famosi del Vietnam ed è stato arrestato per l’ultima volta il 23 aprile del 2020 per “attività contro il governo del popolo”. Al termine del processo, la cui legalità è stata criticata da diverse organizzazioni internazionali, è stato condannato a 12 anni di carcere per il reato di sovversione, previsto dall’articolo 109 del codice penale vietnamita. Dopo l’arresto avrebbe subito anche delle violenze, come dimostrano le foto pubblicate da alcuni media di stato che lasciano vedere delle ferite al volto.
La giustificazione per l’arresto è rappresentata da alcuni post pubblicati da Thach su Facebook nei quali criticava la corruzione del governo e gli abusi dei diritti umani nel paese. Durante il processo, il pubblico ministero ha dichiarato che l’attivismo del poeta e i suoi scritti “minacciano la stabilità sociale, l’indipendenza nazionale e il socialismo, riducendo la fiducia della popolazione nelle istituzioni politiche del Vietnam e mettendo a rischio la sicurezza nazionale e l’ordine sociale”.
Il giorno della sentenza la polizia ha eretto barriere di sicurezza a 500 metri dall’edificio del tribunale, secondo quanto ha sostenuto il suo avvocato Ha Huy Son. Episodio che fa capire quando Thach sia popolare tra gli attivisti vietnamiti. Al legale, tra l’altro, sarebbe stato impedito di fare le fotocopie dei documenti dell’accusa prima del processo, così come per diverse settimane non gli sarebbe stato possibile incontrare l’assistito. L’udienza è durata meno di due ore e si è svolta senza contrapposizione tra il legale di Thach e la pubblica accusa. “Sembrava che la sentenza fosse già stata scritta prima del processo”, ha dichiarato l’avvocato ai media internazionali in seguito.
Thach ha una lunga storia di attivismo alle spalle. E nonostante la fama internazionale raggiunta per i suoi lavori ha sempre deciso di restare nel suo paese per provare a cambiarlo dall’interno. Tra le sue opere spiccano la collezione di poesie Dieu Chua Thay (“Le cose che restano non dette”) e il memoriale Ho Chon Nguoi Am Anh (“Un’infestata tomba collettiva”), nel quale racconta la storia dell’omicidio di massa di civili da parte dei militari nella provincia di Dong Nai del 1975, del quale lui fu diretto testimone. Ha realizzato un romanzo, centinaia di poesie e di articoli: in quasi tutti i suoi scritti si occupa di diritti umani e storie di prevaricazione delle istituzioni verso associazioni o privati cittadini.
Alla sua produzione artistica, Thach ha sempre accompagnato anche un’intensa attività associativa e organizzativa condotta in prima persona. Nel 1978 era rimasto gravemente ustionato dopo essersi dato fuoco per protestare contro gli abusi a lui dire subiti dalle autorità. Nel corso degli anni è stato più volte accusato di scrivere articoli, pubblicati sulla rivista clandestina To Quoc, che distorcono la verità colpendo governo e stato. L’ultima volta era stato arrestato nel 2008 e aveva passato tre anni in cella dopo essere stato condannato per “propaganda contro lo stato”. Dopo il rilascio, avvenuto nell’agosto del 2011, il poeta era stato costretto a trascorrere altri tre anni ai domiciliari. Questo non gli ha impedito, nel 2013, di essere uno dei co-fondatori della Brotherhood for Democracy, un’associazione civile che è stata ripetutamente presa di mira dalle autorità. Tantissimi membri del gruppo sono stati arrestati negli ultimi anni e attualmente sette di loro sono dietro le sbarre più altri due che si trovano in esilio in Germania.
Thach non è certo l’unico artista vietnamita a essere bersaglio della giustizia e delle autorità. Tra gli altri, sono attualmente in carcere o ne sono usciti di recente anche gli scrittori Pham Doan Trang, Nguyen Ngoc Nhu Quynh, Nguyen Huu Vinh e Nguyen Thi Minh Thuy. In cella anche decine di blogger e attivisti, tra i quali Truong Duy Nhat e Ho Van Hai. Per non parlare dei giornalisti indipendenti, anche loro spesso nel mirino. Il Vietnam, nonostante l’apertura globale a livello commerciale, resta uno dei paesi col maggior numero di artisti in carcere al mondo. Da una parte l’accordo di libero scambio con l’Unione europea e la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), dall’altra una repressione che non si ferma ma che anzi si è intensificata in occasione del 13esimo congresso del Partito comunista vietnamita del gennaio 2021. Un appuntamento attesissimo che ha ridefinito i cosiddetti “quattro pilastri”, vale a dire i ruoli politici che governano la vita del paese. Appuntamento dal quale è uscito ancora una volta vittorioso Nguyen Phu Trong, confermato segretario generale per la terza volta consecutiva. Come accaduto qualche anno prima in Cina, anche il Vietnam ha così deciso di rimuovere il vincolo dei due mandati che reggeva dai tempi di Le Duan, successore di Ho Chi Minh. Completamento di un processo di accentramento di poteri iniziato già all’alba del suo primo mandato, quando la direzione del comitato centrale anticorruzione è passata dal primo ministro al segretario. Strumento utilizzato da Trong, subito dopo il congresso del 2016, per lanciare la campagna della “fornace ardente”, con la quale ha accresciuto la propria popolarità e si è sbarazzato di alcuni rivali politici. Parallelamente all’offensiva “politica” si è intervenuti anche sulla società civile. Per restare agli scorsi mesi, sono stati arrestati Pham Chi Dung, presidente dell’associazione dei giornalisti indipendenti poi condannato a 15 anni di carcere, e altri due reporter che dovranno scontare 11 anni.
Mentre sempre più vietnamiti hanno accesso a internet e ai social (Facebook ha superato i 60 milioni di utenti locali), il governo ha inoltre rafforzato la sua repressione digitale. Nel 2020 Facebook avrebbe cancellato il 95% dei post ritenuti “sovversivi” dall’esecutivo, youTube il 90%. Particolari emersi anche dalla recente inchiesta nota come Facebook Papers, nella quale si sostiene che in vista del congresso del Partito comunista vietnamita dello scorso gennaio Facebook abbia “significativamente incrementato la censura dei post contro lo stato, consegnando al governo un controllo quasi totale sulla piattaforma”. Il rapporto di trasparenza di Facebook mostra che l’azienda ha più che raddoppiato il numero di post che ha bloccato nel paese – da 834 nella prima metà del 2020 a più di 2.200 post nella seconda metà dell’anno, proprio nel pieno di una campagna anti corruzione in realtà volta a colpire gli avversari politici portata avanti dai quadri di Hanoi. In una dichiarazione al Washington Post, Facebook ha difeso la decisione, dicendo che era giustificata “per garantire che i nostri servizi rimangano disponibili per milioni di persone che si affidano a loro ogni giorno”.
Proprio i post pubblicati sul social sono stati ripetutamente utilizzati dalle autorità come scusa per procedere all’arresto di attivisti, blogger e, appunto, artisti. Come nel caso di Thach, la cui penna è stata (almeno per ora) fermata.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Gariwo]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.