Tra strip club e love hotel, alla ricerca del Giappone che svanisce

In by Gabriele Battaglia

Tra vicoli stretti e anonimi delle grandi città giapponesi, c’è un paese che sta per essere cancellato dal tempo. È quello del cosiddetto «odore Shōwa», l’atmosfera di gioia e spensieratezza che ha dominato per gran parte del dopoguerra nel paese-arcipelago. Oggi, sono la riqualificazione, la speculazione immobiliare, il turismo di massa e le leggi per la decenza e la prevenzione dei disastri a mettere a rischio quell’atmosfera unica. Così siamo andati a cercarla, tra gli strip-club di Asakusa, a Tokyo, e i love hotel vintage di Kyōbashi, a Osaka. Trovare il Taishōkan è un’impresa. Nelle vie senza nome di Asakusa, una delle zone «storiche» di Tokyo, è facile perdersi. Bisogna esserci andati già una volta per ritrovare la strada, una piccola traversa di una shōtengai – un via commerciale coperta – dietro il grande tempio buddhista del Sensō-ji. Superata la fragile barriera formata da bande di plastica trasparente e da una leggera porta in legno, si apre un piccolo locale con una decina di posti a sedere.

«Siete qui per lo spettacolo, vero?», ci chiede una delle inservienti. È minuta, magra e con i capelli tinti leggermente scoloriti. Indossa una mascherina facciale, da cui si intravede una fitta rete di rughe. Deve avere almeno 80 anni. «Vi porto subito da mangiare. ‘Mamma’ dovrebbe arrivare subito». L’ambiente puzza di stantio, di fumo, di cane.

 

Ci sediamo in attesa di «mamma», la regina madre degli strip club di Tokyo. Mama, in giapponese, è in effetti anche il titolo con cui ci si riferisce alle «tenutarie» di un bar o di un locale notturno. Il ristorante è solo una tappa prima di entrare nella vera casa della donna, il Rock-za, uno degli ultimi teatri per lo strip-tease di Tokyo. Oggi in tutta la capitale, secondo quanto riportato da un sito specializzato in informazioni su locali osé, club privé, centri massaggi e servizi di ragazze a chiamata, ne sarebbero rimasti appena sette.

Stando alle biografie ufficiali, «mamma» – al secolo Chieko Saitō, 89 anni – arriva ad Asakusa poco più che trentacinquenne all’inizio degli anni 60 con i suoi due figli. Qui esordisce come spogliarellista. Dieci anni più tardi, sull’onda della bolla economica, inizia a investire i soldi guadagnati nel settore immobiliare riuscendo anche a comprarsi il Rock-za. Oggi il teatro non è più suo, lo ha lasciato al nipote. Ma lei ha deciso di non abbandonare quella che per decenni è stata la sua casa: l’appartamento in cui oggi vive è giusto al piano sopra e tutti nella zona continuano a chiamarla con rispetto e adorazione «mamma». Non è solo la fondatrice di uno dei più famosi strip-club della capitale giapponese, ma una delle superstiti di un’epoca quasi completamente cancellata dalla transizione economica e culturale, dalle leggi per il «buon costume» e dalla progressiva «turisticizzazione» dell’area

Oggi la zona di Asakusa è famosa per le sue bancarelle sul viale di accesso al Kaminari-mon, il portale del tuono che conduce all’imponente Sensō-ji; per i suoi ristoranti e le botteghe finto-tradizionali; e per la vista della ultramoderna Skytree, la gigantesca antenna che sorge sull’altra parte del fiume Sumida e che contrasta con i tetti a spiovente del tempio. A una parete del Taishōkan, dietro un grosso tavolo in legno scuro, sono appese centinaia di foto sbiadite. Sono foto di “mamma” in compagnia di personaggi del mondo dello spettacolo o con la sua famiglia. Quelle con l’attore, regista, comico e artista Takeshi Kitano saltano subito all’occhio.

Al matrimonio del nipote, nel 1999, «mamma» aveva chiesto a Kitano di girare il film Zatōichi, tratto da una serie tv anni 70. Il protagonista di quella serie, Shintarō Katsu, aveva con «mamma» un rapporto privilegiato. Lei aveva aiutato lui e il fratello maggiore, anche lui attore, in un momento di difficoltà professionale, ospitandoli in una delle sue case ad Asakusa e poi prestando loro dei soldi. Si dice che con Katsu, alla fine, fosse scoppiato qualcosa di più. Inizialmente restio, Kitano aveva ceduto alle pressioni di «mamma». Lei ammirava la sua regia e con lui condivideva l’amore per il quartiere. Anche Kitano, come «mamma», aveva infatti esordito nel mondo dello spettacolo proprio qui, aprendo gli show al France-za, un altro storico teatro di spogliarello. «Ti porterò in Europa», aveva infine promesso Kitano a Saitō. In qualche modo è stato così. Il film sarebbe uscito nel 2003 e sarebbe valso a Kitano un Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia. Un briciolo della sua fama mondiale, Beat Takeshi lo deve anche a «mamma».

Chocolat, un chihuahua marrone, sale intanto sulla stessa panca dove mi siedo. Dopo aver abbaiato all’ingresso, mi fissa con i suoi occhi sporgenti. C’è una grande vasca per pesci rossi e sopra un televisore a schermo piatto che trasmette una partita di baseball. Due signori con i capelli imbiancati dall’età e uno più giovane sono con lo sguardo in alto verso lo schermo. Fumando davanti a bicchieri di tè freddo, discutono degli atleti in campo e delle loro giocate.

La cuoca, una signora gioviale, sdentata sulla sessantina, si sporge dalla cucina in gesto di saluto. La sua figura, abbondante, contrasta con quella della sua magra collega. Al Taishōkan si servono principalmente ramen e soba, spaghetti di riso in brodo «alla cinese», saltati alla piastra con salsa di soia, verdure e pancetta i secondi. In Giappone, insieme agli udon, spaghettoni in brodo spessi e difficili da mangiare senza macchiarsi dalla camicia ai pantaloni, sono un cibo adatto per tutte le ore del giorno e della notte. Non è una casualità che sia così: il Taishōkan non chiude mai. «Mamma» l’ha aperto quarant’anni fa per gli avventori e per le ballerine del Rock-za, che fino agli anni 90 lavorava fino alla mattina. Oggi l’ultimo spettacolo è alle 21 e tutto chiude prima delle 23.

Ma il Taishōkan rimane aperto per gli aficionados e i nottambuli del quartiere. «Mamma» arriva, in sedia a rotelle, spinta da un suo collaboratore, giusto in tempo per dirmi di sbrigarmi. Rischio di non fare in tempo per lo spettacolo. «Oggi ‘le mie bambine’ mettono in scena uno spettacolo splendido», mi dice mentre, sempre spinta dal suo collaboratore, mi accompagna verso il teatro. Non fosse per le gigantesche corone di fiori e le insegne con i volti delle ballerine che si esibiscono quel giorno, sembrerebbe di stare in un normale cinema o in un piccolo teatro underground. C’è una cassa con un uomo attempato con i baffi e un papillon d’antan, un foyer con un bancone bar, tre distributori automatici, uno per gli alcolici, uno per i soft drink e un altro per le sigarette. In sala, poltrone ribaltabili disposte in file davanti a un palco da cui diparte una pedana con una piattaforma rotante al termine. Sarà qui che la ballerina di turno, andato via il gruppo, si esibirà nel suo assolo.

Non è un semplice spogliarello. Lo spettacolo è infatti un alternarsi di numeri di gruppo ispirati a film, musical e manga, e di esibizioni in solitario delle ballerine «anziane»: anche qui come in molti spazi della società giapponese, l’organizzazione è gerarchica. Gli assoli sono un’occasione per il pubblico di stabilire un contatto con le ballerine. Non è raro infatti vedere qualcuno alzarsi dalla poltrona ricoperta di tessuto rosso, avvicinarsi alla stripper con un mazzo di fiori in mano sfoderando un sorriso imbarazzato, consegnare il regalo, e tornare a sedersi tra un pubblico fatto principalmente di uomini tra i trenta e i sessant’anni in giacca e cravatta, qualcuno con la 24 ore distintiva del salaryman. Lei, al centro della pedana, accetta i fiori e restituisce gentilmente il sorriso. Dopodiché il dono, per la felicità del donatore che si strappa le mani applaudendo, diventa parte della coreografia senza scadere nello sconcio o nel perverso.

In un paese dove produzione e mercificazione della pornografia sono vastissime, il Rock-za appare come un’oasi di erotismo senza eccessi. Tanto che, tra la maggioranza formata dai cosiddetti ossan, signori che hanno superato la mezza età, si scorge anche qualche donna, tailleur scuro, capelli legati e occhiali dalla montatura sottile, e qualche giovane coppia. Non solo: il Rock-za appare solitario in mezzo a un deserto di riqualificazione urbana, hotel di lusso e bar acchiappaturisti, un angolo oscuro e fumoso di vita vera, genuina. Ma come tutte le oasi che si rispettino è messa a rischio dall’avanzata del deserto. I piani di ricostruzione e poi riqualificazione di Asakusa, uno dei “centri storici” di Tokyo dove ancora si riesce a intravedere l’eredità della vecchia Edo (così si chiamava la megalopoli prima di diventare la «capitale dell’Oriente» con la Restaurazione Meiji del 1868) l’hanno già abbondantemente trasformata.

Prima della guerra Asakusa era il distretto dell’intrattenimento popolare più importante della capitale, con i suoi cabaret, i teatri, i cinema, e gli sutorippu come il Rock-za. La guerra infligge un primo colpo al quartiere che subisce ingenti danni, nella distruzione generale dei bombardamenti incendiari americani. Oggi, intorno al Sensō-ji, si ammucchiano grigi palazzi costruiti in pieno boom economico, tra gli anni 60 e 70, e hotel di lusso più recenti. La ricostruzione del dopoguerra ha cambiato i connotati al quartiere dell’intrattenimento della prima epoca Shōwa – il periodo coinciso con il lungo regno dell’Imperatore Hirohito dal 1926 al 1989 – distribuito intorno al parco di Asakusa Rokku, il primo parco cittadino di Tokyo, al cui centro c’era un piccolo lago. A fine anni 50 il lago fu interrato per fare posto a un parco divertimenti. Pochi anni dopo, nel 1964, arrivano le Olimpiadi; nuovi quartieri come Shinjuku e Shibuya, ancora oggi il vero fulcro della vita notturna della capitale giapponese, iniziano a svilupparsi e attrarre i giovani. Da Asakusa scomparirono i cinema e arrivarono centri commerciali e alberghi. Rimasero alcuni teatri, qualche cabaret e il Rock-za.

Lo smantellamento della Jintandō nel 1986 fu un altro colpo per il quartiere. Questa torre in cemento era stata usata a scopo pubblicitario, e con le sue insegne e le sue finestrelle disegnate illuminate a neon era diventata una delle tappe obbligate per chi si recava a Tokyo. La sua forma era ispirata alla Ryōunkaku, il primo «grattacielo» all’occidentale (progettato dall’architetto scozzese William Burton), che fino agli anni 40 del ‘900 aveva dominato Asakusa. L’usura del tempo aveva però resto la Jintandō pericolante. Fu così smontata. Di lei rimase solo la grande insegna bianca con i caratteri «仁丹» (Jintan, il nome di una casa farmaceutica), rimossa solo quattordici anni più tardi. Della torre oggi rimane una targa nei pressi di un convenience store, un supermercato aperto 24/7.

Come la Jintandō anche luoghi come il Rock-za rischiano di diventare troppo onerosi per essere tenuti aperti. «È stato con la fuheihō che Asakusa è cambiata», mi spiegano. Il riferimento è a una legge sul pubblico decoro del 1984 che fissò la chiusura dei locali notturni per l’intrattenimento degli adulti a mezzanotte e determinò la fine di diversi esercizi di questo tipo. «Prima di allora non c’erano limiti di tempo per l’apertura dei locali. Con la legge, i locali come il Rock-za possono stare aperti solo fino alle 11, massimo mezzanotte». Poi, arrivò la fine dell’economia di bolla. «A quel tempo giravano molti soldi», ci dicono al Taishōkan con una punta di nostalgia. Oggi è tutto diverso: la gente esce di meno, spende di meno e soprattutto non ha più voglia di stare fuori tutta la notte. «Sono tutti preoccupati dallo shuden, l’ultimo treno». 

Quella di Asakusa è una storia esemplare. Da quartiere dell’intrattenimento a quartiere dormitorio dove pochi ancora resistono all’ondata del turismo mordi e fuggi. A quattro anni dalle olimpiadi di Tokyo 2020, il rischio è che ciò che è successo ad Asakusa, tra speculazioni immobiliare e progetti di «ri-sviluppo», si replichi in altri quartieri, finendo per cambiare la faccia della megalopoli. Tokyo rischia di perdere molta della vitalità e dell’energia che aveva reso unica l’epoca precedente, quell’atmosfera che i giapponesi chiamano Shōwa no nioi, l’«odore Shōwa».

A cominciare dalle sue shōtengai, le vie commerciali coperte sempre più svuotate per l’abbandono da parte dei vecchi proprietari di negozi, a cui i giapponesi di oggi preferiscono i grandi centri commerciali in stile occidentale a Shinjuku, Shibuya e Ikebukuro. Un recente articolo del quotidiano in lingua inglese Japan Times evidenziava il rischio di una «deriva verso l’anonimato» di molte parti di Tokyo un tempo vivaci aree di passaggio fatte di piccoli negozi e piccoli ristoranti, caffè e bar. 

«È a dir poco arduo camminare oggi a Tokyo senza vedere un cantiere aperto», scriveva l’autore del pezzo Masami Ito. In alcuni distretti la riqualificazione, o meglio il «ri-sviluppo», è più evidente che in altri. A Chiyoda, tra la stazione centrale di Tokyo e la stazione di Yurakucho, a pochi passi dalle vie dello shopping di lusso di Ginza è tutto un fiorire di grattacieli. Il ri-sviluppo suona trendy, spiegava nello stesso articolo uno degli intervistati, ma è la prospettiva umana a mancare. La riqualificazione infatti pone precise questioni sociali che però le autorità cittadine e statali preferiscono ignorare. A Musashi-Koyama, un quartiere a sudovest della capitale nel distretto di Shinagawa, verso Yokohama, famoso per le sue viuzze strette, le sue shōtengai, i piccoli ristoranti e i locali notturni, le pressioni da parte delle autorità sulla comunità locale per la riqualificazione sono iniziate nel 2011, dopo il grande terremoto del Tohoku. In nome delle “politiche di prevenzione dei disastri”, molti esercenti sono stati invitati a chiudere bottega. Proprio come già era successo con le Olimpiadi del 1964, quelle delle autostrade e dello shinkansen – il treno-proiettile che oggi collega Tokyo con il resto dell’arcipelago – Tokyo sta attraversando una transizione dolorosa che rischia di cancellare il passato in nome di un futuro anonimo. Come commentava ancora sul Japan Times Manjo Shimahara del gruppo Home’s Research Institute, un think tank che in questi mesi segue i progetti di riqualificazione avviati in molte parti della capitale giapponese, «I nuovi quartieri saranno più nuovi e puliti. Ma saranno davvero interessanti?».

Il regista Kenji Murakami ha deciso di documentare ciò che rimane in molte parti del Giappone della cultura popolare del periodo Shōwa. E lo ha fatto cominciando da un altro spazio caratteristico del Giappone contemporaneo: il love hotel. I rabu-ho, così li chiamano per comodità i giapponesi, sono i caratteristici alberghi a ore, moltiplicatisi durante il boom economico del dopoguerra per ovviare ai problemi di spazio e privacy delle piccole abitazioni delle nuove città. Il loro nome deriverebbe dal nome di un hotel a ore di Osaka, aperto alla fine degli anni ’60 e chiamato per l’appunto Hotel Love.

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A favorire il successo di questi hotel in stile occidentale furono soprattutto le coppie in cerca di intimità, prima costrette a imboscarsi in qualche luogo all’aperto poco frequentato. Fu anche la presenza nelle camere di vasche da bagno private, in un paese in cui il bagno è stato per secoli un’esperienza di gruppo (ancora oggi in delle città giapponesi sono diffusi i sentō, i bagni pubblici con grandi vasche di acqua calda comuni) a far apprezzare al pubblico i love hotel. La fantasia spinse poi i gestori dei love hotel a rendere i propri alberghi «pezzi unici» che fossero attraenti per i clienti: si svilupparono così alberghi a tema, che spaziavano dal tradizionale giardino zen alla rampa di lancio di un satellite, a un circuito di Formula Uno.

La curiosità e la nostalgia per quell’epoca hanno spinto Murakami, classe 1970, ad andare in giro per tutto l’arcipelago giapponese a documentare i rabu-ho più fantasiosi costruiti prima degli anni 80 e ancora aperti al pubblico. È una sorta di corsa contro il tempo: molti degli edifici dove sorgevano i love hotel di epoca Shōwa sono stati abbattuti, oppure hanno chiuso. Inoltre, quando questo non succede, «di tanto in tanto gli alberghi vengono rinnovati e tutto ciò che c’era prima, finisce per sparire», come spiegava Murakami a un programma radiofonico della Tbs, emittente di Tokyo. «I love hotel di oggi sono diventati tutti simili, più semplici». Così ha deciso di raccogliere immagini, suoni – come quello dei letti rotanti diffusi in molti love hotel – e interviste con alcuni albergatori, raccolti in un doppio dvd intitolato Love Hotel Collection, e in un omonimo libro uscito nel 2012.

 

A Osaka si trova forse uno dei love hotel di epoca Shōwa più bizzarri e unici. Incastrato in una viuzza nei dintorni della stazione di Kyōbashi, una zona molto popolare per la sua vita notturna tra piccoli ristoranti di agekushi (spiedini impanati e fritti tipici della “capitale del Giappone occidentale”), izakaya (locali in cui si mangia e si bevono alcolici) hostess club e alberghi a ore, visto da fuori, sulle prime il Fuki sembra un hotel come un altro. Ciò che però lo rende unico è all’interno. L’ingresso è coperto di una moquette rossa con decorazioni floreali dorate e blu. Alle pareti, della carta da parati bianca a strisce verticali beige. Il desk è chiuso dall’esterno a parte per una piccola fessura tramite la quale si può comunicare con gli addetti alla reception. Lampadari elaborati pendono dal soffitto al centro del quale è stato installato un lucernario quadrato con un sigillo a forma di foglia di paulonia. L’hotel non è solo un pezzo unico nel catalogo di Murakami. È apparentemente diventato un oggetto di interesse anche per qualche curioso straniero, come il fotografo Rick Sanchez che da una ventina d’anni vive a Osaka e ha deciso di documentare i love hotel in stile vintage della città.

«Riposo o pernottamento?», chiede la receptionist. Si intravede solo la bocca. Davanti a lei, quella che sembra una serie di schermi in bianco e nero: sono le telecamere a circuito chiuso puntate sugli ingressi delle stanze, la cui apertura e chiusura è controllata centralmente. Come in tutti i love hotel anche al Fuki si può decidere se affittare le camere a ore o fermarsi per la notte o per più notti. Vista l’unicità del posto, però, la proprietà ha deciso di aprire le prenotazioni e di permettere il soggiorno anche a visitatori singoli. Il costo delle stanze, sia di quelle più piccole, sia di quelle più grandi, è in certi casi inferiore a quello di una normale stanza di un albergo di fascia medio-bassa. Come altri love hotel costruiti tra gli anni 60 e gli anni 70 – l’attuale conformazione del Fuki risale al 1975 – anche qui si cerca di sfruttare il fascino museale del luogo. «Venga assolutamente», aveva ricordato la voce femminile all’altro capo del telefono, prima di riattaccare. 

La mattina successiva, uscendo, incontro per caso la receptionist mentre esce dopo il turno. È una signora anziana sulla settantina. Le chiedo di accompagnarmi nelle stanze più rappresentative dell’albergo. Mi mostra la «nave», una grande stanza con al centro un letto su una struttura a forma di prua e un’altra grande stanza, la cui struttura ricorda quella di un giardino di pietre, di quelli che si trovano in molti tempi buddhisti in Giappone. In un angolo della stanza una vecchia poltrona per massaggi foderata in cuoio. «Queste sono stanze per clienti importanti. Capi d’azienda e così via. Ogni tanto qualcuno ancora oggi si ferma qui».

Faccio appena in tempo a chiederle qualche informazione che la signora mi saluta. «Torni a trovarci!», dice mentre si muove velocemente verso l’uscita. La vedo di nuovo fuori dall’albergo, di spalle, mentre sparisce verso la stazione del treno metropolitano, in un groviglio di persone, vie strette, cavi dell’elettricità, e insegne al neon spente.

[Scritto per The Towner Italia; foto dell’autore]