In vista delle elezioni politiche di Gennaio, viaggio tra le anime taiwanesi, tra vicinanza agli States e tentazioni cinesi. Come cambia il panorama politico e sociale di Taiwan, dopo il recente accordo economico con la Cina . A seguire un focus sulle prossime elezioni.
Taipei è ordinata e pulita, parecchio distante a prima vista dalla confusione delle città cinesi. Templi il cui odore di incenso riempie le strade, aderenti al Falun Gong, il gruppo considerato illegale in Cina, che compiono esercizi per strada, caratteri non semplificati, un memoriale dedicato a Chiang Kai Shek in cui la storia è vista dalla parte di chi ha perso.
Il Partito Comunista Cinese, non è mai menzionato nel museo di storia nazionale, tra le macchine lussuose usate dal generale e le foto in cui è ritratto insieme a quei leader che riconobbero Taiwan. I cinesi chiacchierano e guardano stupiti i documenti e l’immensa statua di Chiang Kai Shek, al termine delle infinite scale che portano al monumento. Un altro mito che la Cina si appresta a fare crollare. Pechino, ormai, è sempre più vicina. Si dice da tempo che Taiwan sia in profonda recessione economica, situazione che sembra avere cambiato per sempre i rapporti tra l’isola considerata ribelle da Pechino e la Grande Cina, così vigorosa e imponente nella sua crescita economica.
L’ago della bilancia mondiale si sta spostando a Oriente e Taiwan rappresenta una sorta di caso paradigmatico: da sempre vicino all’influenza americana, anche per l’accordo che obbligherebbe gli Usa a intervenire militarmente in seguito ad un attacco cinese, retaggio da guerra fredda, da post 1949, Taiwan sta ormai per spostarsi all’interno della borsa della spesa cinese: un segno dei tempi che cambiano, la potenza del soft power cinese e la difficoltà asiatica degli Stati Uniti. Un avvicinamento che tutti gli osservatori cercano di sottolineare per la sua valenza economica: se Pechino spinge per una prossima riunificazione sullo stile di Hong Kong, Taiwan cerca di circoscrivere l’avvicinamento al ramo economico, senza affrettare passi politici, considerati ancora prematuri. Del resto solo nel 2009 – per la prima volta dal 1949 – i leader dei due paesi si sono incontrati a Pechino, a seguito di un anno vissuto pericolosamente tra visite sull’isola del Dalai Lama e Rebya Kadeer, considerata la leader del movimento indipendentista uiguro.
Prima di quella data a Taiwan c’erano i democratici al potere, su posizioni indipendentiste: solo con la vittoria del 2008 del Kuomintang, guidato da Ma Ying-jeou, tutto è cambiato. La Cina ha approfittato del potere nazionalista taiwanese, ora su posizioni filocinesi, attraverso un accordo economico che segna una nuova stagione dei rapporti tra Cina e Taiwan. Un avvicinamento sancito dalle recenti elezioni del novembre 2010 in cinque città che – anche se di stretta misura – hanno visto il via libera popolare alla scelta del Kuomintang: la popolazione di Taiwan ha apprezzato l’avvicinamento alla ricca Cina. Il 29 giugno 2010 era stato infatti firmato l’ECFA, Economic Cooperation Framework Agreement, un accordo economico che abbassa le tariffe degli scambi commerciali tra i due paesi, dando vita ad un’area di libero scambio che ricorda molto da vicino le politiche cinesi già attuate precedentemente per le zone economiche speciali o per Hong Kong. Le elezioni di mid term hanno dato slancio agli accordi: è del 21 dicembre un nuovo patto tra Cina e Taiwan relativo ad una cooperazione su temi di salute tra i due paesi. Movimenti economici e culturali, il cui impatto finisce per ripercuotersi sulla politica e sulla società taiwanese, spezzata tra favorevoli e contrari.
Gli indipendentisti – Nel mercato notturno più grande di Taipei, tra migliaia di bancarelle, tofu di ogni tipo (data l’alta percentuale di buddisti Taiwan è una sorta di miracolo per i vegeteriani) e una folla di gente che occupa ogni angolo di strada calpestabile, alcuni ragazzi, attivisti del Democrative Progressive Party, l’opposizione taiwanese, volantinano e regalano pacchetti di fazzoletti di carta con in bella vista il volto di Tsai Ing-wen, la leader del partito. «Non siamo cinesi, specificano, ad esempio non sputiamo, non abbiamo un solo partito e siamo democratici».
Li seguiamo nella loro attività militante: molte persone si fermano, discutono, altre scuotono la testa e affermano di essere a favore del Kuomintang. Molti gli insulti anti cinesi. «I nazionalisti hanno venduto Taiwan alla Cina», affermano i ragazzi, spietati contro l’ECFA: «è un modo come un altro per mettersi nelle mani della Cina e garantire ai ricchi taiwanesi i propri affari». Shane Lee, professore della Chang Jung Christian University di Taipei, prova a spiegare le ragioni del malcontento dei democratici rispetto alla nuova piega presa dalle relazioni tra Pechino e Taipei: «l’accordo non favorisce la nostra industria, la disoccupazione salirà e il gap tra i ricchi e i poveri aumenterà. I ricchi diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Speriamo che il nostro governo cambierà questo approccio di estrema dipendenza dalla Cina. Siamo preoccupati perché ormai conosciamo i cinesi: attraverso l’economia cercheranno di stringere intorno al nostro collo il nodo politico, finendo per farci perdere le conquiste democratiche della nostra storia. La gente è preoccupata di questo avvicinamento, del resto la Cina non è mai stata gentile con noi e siamo in crisi economica. Secondo i sondaggi la maggioranza è favorevole alla vicinanza alla Cina per questioni economiche e militari, in modo che non ci sia pericolo di missili, è questa la preoccupazione principale. Taiwan militarmente è debole, questo lo sanno tutti e tale aspetto rimane una delle principali preoccupazioni della popolazione».
I pratici – Secondo l’opinione di Chung-chian Teng, professore e Dean della facoltà di Relazioni Internazionali e Diplomatiche della National Chengchi University di Taipei, i taiwanesi invece non sarebbero preoccupati per le valenze politiche dell’accordo, quanto per quelle economiche: «la gente, specifica il preside in un’ampia sala della propria facoltà, sulle colline di Taipei, guarda al portafoglio».
In questo senso l’Ecfa sembrerebbe la soluzione di tutti i mali, non facendo altro che sancire dei rapporti economici ormai di lunga data, a simbolizzare il cambiamento delle politiche economiche taiwanesi e cinesi: «l’Ecfa è molto importante per lo sviluppo economico di Taiwan, d’altronde le nostre relazioni con la Cina sono molto intense. Molti taiwanesi hanno fatto sostanziali investimenti in Cina, questa cooperazione esiste già da tempo attraverso la produzione di beni che poi la Cina esporta in altri mercati, penso a quelli europei e statunitensi. Molti studiosi hanno analizzato questa cooperazione. Noi siamo per l’integrazione economica, guardando un po’ a quanto accaduto all’Unione Europea. Più in là si parlerà di integrazione politica, adesso non è ancora il momento giusto. Come hanno sostenuto i politici locali, l’integrazione politica sarà una questione che dovrà essere gestita dalle prossime generazioni. Parliamo dei prossimi venti o trent’anni».
Da docente e preside di facoltà il suo sguardo sulle nuove generazioni getta una luce possibilista anche circa rapporti tra i due paesi, in grado di andare al di là dei soli aspetti economici: «le nuove generazioni non hanno vissuto il gelo e il dramma delle relazioni da guerra fredda tra Cina e Taiwan, ci sono moltissimi studenti cinesi a Taipei, è molto dura distinguere oggi tra un cinese e un taiwanese. In passato era facile. Senza parlare del turismo: ormai sono tantissimi i cinesi che vengono a Taiwan, è naturale che le cose debbano cambiare».
Una modifica dei rapporti politici che secondo Chung-chian Teng ha bisogno di piccoli passi da parte della Cina. Il Dean a questo proposito, è ottimista: «la Cina deve fare qualcosa in termini di riforme politiche, per avere un’apertura politica con Taiwan. Wen Jiabao ha specificato la necessità di cambiamenti politici, è un segnale importante per noi. Taiwan ha già scelto questa strada di riforme da tempo, in modo graduale. In pochi ci credevano, ma oggi tutti sono abituati alla democrazia. I leader della quinta generazione cinese vengono tutti da un’educazione svoltasi in occidente e quindi c’è la speranza che qualcosa cambierà. Il Partito Comunista del resto ospita spesso incontri e lezioni con professori e intellettuali: il dibattito è aperto, non hanno molte alternative, del resto. Quando ci saranno questi cambiamenti, si potrà aprire una strada al dialogo anche politico. Per ora è prematuro».
I favorevoli- Sun Yang-Ming è un ex giornalista, ora vice presidente del Cross-Strait Interflow Prospect Foundation, un think tank che esamina le relazioni tra Cina e Taiwan. La sua è la posizione di chi ha lavorato all’accordo, un’analisi da dietro le quinte che svela le ragioni politiche delle mosse di Taipei: «l’Ecfa è importante per entrambi, ma ognuno ha le sue interpretazioni. Pechino crede che questo sia il momento per andare verso un’intensificazione dei rapporti con Taiwan: l’Ecfa è il primo passo, verso altri che hanno in mente. Noi diciamo un’altra cosa: vediamo come funziona, come la gente reagirà, se, soprattutto, risolleverà la nostra economia. Noi non possiamo andare veloce, non quanto la Cina e la nostra parola d’ordine è stabilità. Anche perché ora come ora la posizione del nostro presidente è debole: Ma Ying-jeou paga la crisi e l’Ecfa è una prima risposta».
C’è quindi un dilemma possibile: una doppia interpretazione del medesimo accordo: «Pechino è sincera nel suo approccio e vede l’Ecfa come il primo passo verso una potenziale riunificazione politica e pacifica, su questo non ci sono dubbi, la loro strada è quella. Noi però siamo stati molto chiari: non abbiamo alcuna intenzione di parlare di politica con loro. Noi vogliamo solo un approccio economico, perché è l’unica cosa che ci interessa per fare ricrescere la nostra economia. E’ ovvio che l’Ecfa, pur essendo un accordo economico, segna una svolta politica. Vedremo nel 2012: se Ma rivincerà le elezioni si passerà al secondo punto, ovvero un accordo militare, come la Cina ha già con India e altri paesi. Nell’ultimo viaggio che ho fatto in Europa sono stato a Cipro, proprio per studiare questo tipo di situazioni».
C’è da chiedersi, specie per uno come Sun Yang- Ming, molto vicino ai teorici statunitensi nell’approccio a Taiwan, cosa pensano gli Stati Uniti dell’accordo economico: «gli americani sono estasiati dall’Ecfa! – dice ridendo – Erano terrorizzati dal Partito Democratico e i loro continui balletti e sparate mediatiche contro la Cina. Per loro era un problema. Anche con gli Usa noi siamo stati chiari: l’Ecfa non è un passo verso la riunificazione politica, siamo stati onesti e abbiamo specificato tutto quanto vogliamo fare». E’ la verità? «Sinceramente: una eventuale unificazione politica non è un’opzione valida in questo momento dal nostro punto di vista. Alla popolazione di Taiwan ormai non interessa più essere indipendente o essere considerata cinese: vogliono solo vivere in pace e in una situazione economica tranquilla. Vogliono controllare il proprio portafoglio e sentirlo pieno. La gente di Taiwan del resto non può essere spinta ad una unificazione quando per cinquant’anni abbiamo detto peste e corna dei cinesi, sarebbe assurdo.
Dopo un lavaggio del cervello del genere, c’è bisogno di almeno una generazione, prima che alcuni discorsi possano essere intavolati. Dobbiamo andarci cauti e prima di tutto garantire la ricchezza alla popolazione».
[Reportage pubblicato da EAST]