Biden e la nuova amministrazione americana hanno inaugurato la propria stagione politica all’insegna del «ritorno». «Siamo tornati», dicono a Washington, intendendo il tentativo di riposizionarsi come garanti della sicurezza e del benessere mondiale.
Prima di Biden, però, anche Trump aveva proposto un ritorno ai fasti del passato, «Make America great again». «Di nuovo», come accadeva in passato. Perfino le immagini marziane sembrano andare in questa direzione, una riproposizione da 1969, da «guerra fredda»; per quanto affascinante, il lavoro di ricerca su Marte, sembra inserirsi in questa nuova narrativa di Biden: siamo tornati a assicurare pace e prosperità nel mondo, nello spazio, ovunque.
Xi Jinping e Pechino, invece, ripetono di lavorare per un «futuro condiviso» con i paesi che incroceranno l’azione commerciale cinese: sperimentano le auto a guida autonoma, promettono emissioni zero entro il 2060, lanciano la moneta digitale via via verso un utilizzo su scala nazionale. Entrambi gli storytelling sono ammantati di propaganda ma scolpiscono nell’immaginario comune l’idea di due mondi sempre più lontani, incomunicabili, incomprensibili l’uno all’altro.
In questo iato tra aspirazioni al ritorno e sguardo al futuro, in questi diversi riferimenti temporali, è raccolto tutto il bagaglio di incomprensioni che si sta sviluppando – da anni ormai – tra Stati uniti e Cina e in generale tra Occidente e Oriente.
Washington da tempo vive con lo sguardo rivolto a quando la sua economia era la benzina mondiale, a quando i suoi due partiti politici intercettavano e convogliavano le energie sociali «migliori» in progetti «stabili», a quando la sua presenza in giro per il mondo era percepita come giusta e utile, poco conta producesse effetti collaterali devastanti.
La Cina e l’Asia in generale raccolgono invece quel ciclo di accumulazione capitalistico iniziato a fine anni ’80 che oggi consente ai paesi asiatici di guardare per lo più al futuro (non solo la Cina, si pensi a paesi come il Vietnam, Indonesia, Thailandia, Taiwan e lo stesso Giappone che grazie a Pechino pare aver ritrovato nuova linfa per il suo comparto hi-tech).
Su scala globale si assiste dunque a una sorta di ritmo disordinato, inconciliabile: Biden parla di protezione dai pericoli cinesi, Xi Jinping invita il paese a sviluppare la fisica quantistica.
Biden e i G7 cercano di trovare un modo per conciliare profitto e immagine paternalista e filantropica, promettendo di aiutare i paesi poveri con i vaccini, mentre con i suoi vaccini la Cina sta disegnando una nuova tela di rapporti diplomatici di cui prima o poi chiederà il conto. Eppure le due economie, quella cinese e quella americana, al contrario di quanto accadeva durante la guerra fredda tra Usa e Urss, sono interconnesse.
Nei giorni scorsi la Camera di commercio americana ha rilasciato un documento nel quale il «decoupling», il disaccoppiamento delle due economie, viene presentato come un fatto quasi irreversibile. Il problema – spiega la Camera di commercio – è che questa eventualità sarebbe un bagno di sangue per l’economia americana, sia in termini di Pil, sia di lavoratori a rischio disoccupazione.
Per questo l’atteggiamento di Biden nei confronti della Cina sembra essere leggermente diverso da quanto ci si aspettava: si pensava che avrebbe proseguito le politiche economiche trumpiane, con toni più «educati».
Ma la volontà espressa in più occasioni di tornare a fare lo sceriffo in giro per il mondo sembra cambiare la prospettiva: i toni di Biden – anche per motivi interni, non può certo sembrare troppo morbido con la Cina dopo il diluvio dialettico di Trump al riguardo – sono aspri, le provocazioni nei confronti di Pechino ripetute (basti pensare alle navi da guerra americane che in questi giorni si sono affacciate nel mar cinese meridionale) e il primo confronto al G7 lo ha confermato: il ritorno degli Usa sullo scenario mondiale è principalmente in funzione anti cinese.
Il multilateralismo che Biden prova a riqualificare come bussola americana ha come collante, almeno nelle sue intenzioni, la volontà di creare un fronte contro Pechino. Il problema per gli Usa però è che -mentre il paese veniva affossato da Trump- il mondo andava avanti.
La Cina ha tessuto relazioni e ha ottenuto alcuni importanti risultati proprio come segnale di «benvenuto» a Biden: è arrivata la firma del Rcep, il trattato economico asiatico visto come una vittoria diplomatica di Pechino; poi è arrivato il Cai, l’accordo con l’Europa: pur dovendo ancora essere ratificato dal parlamento europeo (e non è detto che accada) è un avvicinamento, trainato da Germania e Francia, che non costituisce un regalo agli Usa, anzi. Mentre gli Usa si rintanavano in un trauma e in una autoanalisi nel periodo trumpista, sono successe parecchie cose, pandemia compresa. Il mondo non è più quello pre Trump, figurarsi quello della guerra fredda.
Macron e Merkel lo hanno fatto notare a Biden: come si può oggi, non avere a che fare con la Cina?
Impossibile. Specie se l’Europa dovesse prendere una decisione senza precedenti: dotarsi, minimamente, di una politica estera, quanto meno commerciale, che non sia telecomandata da Washington.
Si tratta di un tema che bene o male dovrà affrontare anche il nuovo governo italiano di Mario Draghi: rimanere ancorati a un passato che non c’è più e che non ritornerà, o provare a fare qualche passo nel futuro. Eventualità che non significa affidarsi mani e piedi ai cinesi, ma tutelare i propri interessi e non quelli di uno sceriffo senza più stella sul petto, da tempo.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.