Per tre anni il Giappone non ha eseguito alcuna condanna a morte. Ma il boia è tornato ieri, quando ha portato a termine le esecuzioni capitali per impiccagione di tre detenuti nel braccio della morte. Il ministro della Giustizia del governo Kishida, Yoshihisa Furukawa, ha blindato la pratica che vede il paese del G7, così come gli Usa, condannare a morte un essere umano.
Già lo scorso ottobre il ministro aveva definito la pena capitale inevitabile per i crimini efferati e giudicati atroci dalla comunità, allontanando le speranze di una revisione dell’attuale ordinamento giuridico nipponico.
Per il ministro Furukawa non c’era altra scelta: i tre detenuti avevano commesso reati «estremamente orribili». Uno dei tre condannati, Yasutaka Fujishiro, 65 anni, è stato ritenuto colpevole di aver ucciso sette suoi parenti nella prefettura di Hyogo nel 2004. Gli altri due carcerati nel braccio della morte, Tomoaki Takanezawa e Mitsunori Onogawa, 54 e 44 anni, sono stati condannati per l’uccisione di due dipendenti in due diversi locali di gioco d’azzardo nel 2003.
Il fermo di tre anni della pena capitale è stato preceduto da tre impiccagioni nel 2019 e da 15 eseguite un anno prima, quando sono stati condannati in massa i 13 membri della setta religiosa dell’Aum Shinrikyo, responsabili dell’attentato con gas nervino nella metropolitana di Tokyo nel 1995, nel quale morirono 14 persone. Con le ultime esecuzioni, i detenuti nel braccio della morte sono ora 107.
Il governo di Tokyo sembra guardare i profili dei detenuti per giustificare il respingimento delle richieste di abolizione della pena capitale avanzate da Unione europea, gruppi per i diritti umani e di migliaia di avvocati e professionisti legali giapponesi. Le esecuzioni nel Paese vengono condotte quasi unicamente per impiccagione e riguardano in prevalenza pluriomicidi.
E molto spesso avvengono in segreto, con i prigionieri nel braccio della morte informati solo poche ore prima dell’esecuzione. L’associazione degli avvocati giapponese definisce incostituzionale il mancato preavviso al detenuto: i legali così non possono appellarsi contro l’ordine di esecuzione della sentenza, lasciando i carcerati nell’agonia di vivere il loro ultimo giorno.
Dopo le esecuzioni di ieri, il vice capo di gabinetto Seiji Kihara ha ribadito che non è appropriato abolire il sistema della pena capitale, a causa del verificarsi continuo di crimini efferati. L’esecutivo fa appello anche all’alto consenso popolare: una netta maggioranza dei cittadini giapponesi riconosce l’essenzialità di un provvedimento così atroce.
In un sondaggio condotto nel novembre 2019 dall’Ufficio di Gabinetto, l’80% di 3mila intervistati si è detto a favore della pena capitale. I giapponesi ritengono che la condanna sia uno strumento per rispettare i sentimenti della famiglia della vittima e per impedire che il colpevole commetta altri reati.
Le esecuzioni di ieri rischiano di inondare di polemiche il premier Fumio Kishida, insediatosi lo scorso ottobre. L’opposizione è sul piede di guerra e attacca il governo per aver scelto di eseguire le condanne in questo periodo dell’anno allo scopo di ridurre le critiche, visto che le attività del Parlamento sono sospese.
Anche le ong puntano il dito contro Tokyo. La Death Penalty Project, nei suoi rapporti sulla pena capitale applicata in Giappone, ha sottolineato a più riprese il falso mito dell’alto indice di approvazione popolare sulle esecuzioni, adducibile a «seri problemi metodologici» nei sondaggi dell’esecutivo.
Amnesty International, che ha ripetutamente invitato il Giappone a stabilire un’immediata moratoria ufficiale su tutte le esecuzioni come primo passo verso l’abolizione totale, ha giudicato «sconcertante» l’opposizione di Tokyo a porre fine all’uso della pena capitale.
Di Serena Console
[Pubblicato su il manifesto]
Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.