Il governo cinese sta approvando una proposta di legge che ridurrebbe il periodo più breve che le autorità possono concedere a chi vuole lavorare in Cina. Per qualcuno è un giusto controllo. Ma altri temono degli effetti negativi. Intanto le tensioni fra cinesi e stranieri continuano a salire. Le autorità cinesi sono in procinto di approvare una nuova legge secondo la quale la durata minima dei certificati di residenza per gli stranieri che intendono lavorare in Cina verrà dimezzata da 180 a 90 giorni. La notizia è arrivata nel bel mezzo di una campagna per “scovare” i residenti illegali nel Paese.
Negli ultimi mesi le autorità cinesi si hanno mostrato meno benevolenza verso gli stranieri residenti in Cina.
Il cambio di rotta del governo è iniziato un mese fa, quando un cittadino britannico tentò di stuprare una donna cinese a Pechino. Da allora è iniziata una campagna per scovare gli stranieri senza le carte in regola.
Un altro episodio carico di tensione è avvenuto a Canton, dove agli inizi di giugno la notizia della morte di un uomo di origini nigeriane che si trovava nella mani della polizia scatenò le proteste della comunità africana.
Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, il 26 giugno la legge “è stata inviata al Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo per via delle preoccupazioni che il comportamento di alcuni espatriati abbia portato ad un aumento di sentimenti ostili contro gli stranieri”.
Se sarà approvata, le autorità potranno rilasciare un permesso di residenza per motivi di lavoro anche solo di 90 giorni, mentre prima si parlava di un minimo di 180. Il permesso di residenza, nonostante il nome, funziona come un visto: per tutta la sua validità permette al detentore di entrare e uscire dal paese per un numero illimitato di volte.
La proposta di legge parla anche di "multe fino a 10mila yuan per le compagnie che offrono ai residenti stranieri delle lettere d’invito illegali”. E, se uno di questi dovesse venire scovato, “le aziende dovranno coprire i costi per il rimpatrio”.
I media di Hong Kong hanno riportato l’opinione di Ong Yew-kim, professore presso la China University of Political Science and Law, secondo il quale “riducendo il periodo di tempo che uno straniero può trascorrere in Cina le autorità hanno reso più semplice il controllo degli stranieri che si trovano qui”.
“Per le autorità sarà più semplice sbarazzarsi degli immigrati sgraditi” ha aggiunto il professore.
Oggi 27 giugno, il Global Times – testata di Stato cinese – dedica non uno, ma ben due articoli alla questione. Secondo quanto rivelato da una fonte anonima, la manovra costituirebbe un vantaggio per chi intende lavorare in Cina: “dopo essere restati per novanta giorni, gli espatriati avranno la possibilità di fare domanda per un permesso di residenza che va dai 180 giorni ai cinque anni, e questo farà risparmiare loro la metà del tempo di cui avevano bisogno in precedenza”.
Meno ottimista si è mostrato Wang Zhenyu, professore presso la China University of Political Science and Law, secondo il quale è giusto che la Cina controlli gli immigrati, ma “non c’è bisogno di ridurre il tempo di permanenza, perché questo farebbe crescere i costi dei movimenti di popolazione a livello globale”. E, in ultima analisi, potrebbe spingere alcuni a cambiare destinazione.
Secondo le statistiche ufficiali, il numero di stranieri “beccati” senza carte in regola è cresciuto da 10mila nel 1995 a 20mila l’anno scorso.
Secondo quanto riportato dal Nanfang Daily, nei 10 anni precedenti il 2011, oltre 27 milioni di non cinesi sarebbero entrati in Cina, con un aumento del 10 per cento all’anno. Al momento sarebbero 220mila quelli che lavorano nel paese.
Fra cinesi e waiguoren, gli “stranieri”, i rapporti non vanno migliorando. L’opinione del Global Times, in generale, è che “i residenti locali hanno smesso di vedere negli stranieri delle semplici curiosità, ma si trovano sempre di più a dover affrontare i problemi dovuti alla crescente presenza di immigrati”.
Per questo motivo, “nascondere il problema sotto il tappeto non è un’opzione. Ma non è necessario considerare l’intera comunità di stranieri come un fattore negativo”.
* Michele Penna è nato il 27 novembre 1987. Nel 2009 si laurea in Scienze della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali con una tesi sulle riforme economiche nella Cina degli anni ‘80-’90. L’anno seguente si trasferisce a Pechino dove studia lingua cinese e frequenta un master in relazioni internazionali presso l’Università di Pechino. Collabora con Il Caffè Geopolitico, per il quale scrive di politica asiatica.
[Scritto per Lettera 43; Foto Credits: english.caixin.com]