Tokyo e Seul divise anche sui patrimoni dell’umanità

In by Gabriele Battaglia

Tokyo vorrebbe iscrivere nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco alcuni siti industriali della fine dell’Ottocento. Per i giapponesi sono reperti della modernizzazione del periodo Meiji. Ma per Seul e migliaia di coreani sono simboli di imperialismo e schiavitù. E questo è solo il motivo più recente di disputa tra due Paesi così vicini eppure così distanti. Mentre Shinzo Abe era impegnato in un tour diplomatico che dall’Indonesia al summit asiatico-africano lo ha portato negli Stati Uniti, una nuova discutibile proposta giapponese ha fatto scoppiare un’altra mezza bagarre diplomatica con la Corea del Sud. Un’altra.

Tokyo vorrebbe infatti iscrivere nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco alcuni siti industriali della fine dell’Ottocento. Tra i ventitré siti iscritti nella lista che verrà presentata all’organizzazione per la valorizzazione del patrimonio culturale mondiale delle Nazioni unite, ci sono ex miniere e cantieri navali.

Perché allora tanto rumore? Per Tokyo, questi sono luoghi simbolo della Restaurazione Meiji, il periodo durante il quale il Giappone ha affrontato il passaggio dal "medioevo" alla modernità di stampo euro-americano. Peccato che dall’altra parte del mare, non la vedano proprio allo stesso modo. Per Seul, sono luoghi simbolo dell’imperialismo giapponese e della schiavitù di decine di migliaia di coreani.

Nonostante un recente riavvicinamento diplomatico sull’asse Pechino-Seul-Tokyo dopo tre anni di freddezza, le questioni che dividono Tokyo da Seul sono ancora parecchie.

In primo luogo, la storia infinita delle comfort women, su cui l’attuale governo di Tokyo in più occasioni ha schivato accuse e richiami all’assunzione di responsabilità. Il premier Abe è dall’inizio della sua carriera politica "sensibile" alla questione, tanto da essersela presa negli anni con i principali media nazionali (Nhk, la tv nazionale e, ancora prima, l’Asahi Shimbun, quotidiano che negli anni ’80 pubblicò una serie di articoli sulla questione) per aver fatto informazione troppo di parte e aver dato per scontata una vicenda "non verificata". Almeno nella retorica della destra revisionista e conservatrice giapponese.

La documentazione storica fin qui disponibile parla di almeno 20mila donne (ma alcune fonti parlano anche di diverse centinaia di migliaia) ridotte in schiavitù per il piacere dei soldati giapponesi impegnati sul continente asitatico: in gran parte donne coreane, ma anche cinesi, indonesiane finanche olandesi.

Tokyo ha riconosciuto le proprie responsabilità nella vicenda delle comfort women nella dichiarazione Kono del 1993. Peccato che da qualche tempo a questa parte abbia ricominciato a circolare negli ambienti della destra giapponese – e di riflesso, anche al governo, composto per la maggior parte da membri di associazioni revisioniste o elementi che avrebbero connessioni con ambienti della destra radicale – l’idea di "rivedere" la dichiarazione. Un progetto che per ora Abe e i suoi sembrano aver messo in stand-by, per non mettersi contro anche l’unico vero alleato di Tokyo: gli Stati Uniti.

A questa questione principale se ne affiancano due di minore importanza ma che comunque pregiudicano il rapporto di vicinanza tra i due Paesi: l’irrisolta disputa territoriale sull’isolotto di Takeshima-Dokdo, su cui Tokyo rivendica sovranità, ma su cui Seul mantiene un presidio; e il più recente caso del giornalista Tatsuya Kato, ex capo dell’ufficio di corrispondenza di Seul del giornale ultra-conservatore Sankei Shimbun.

Nel primo caso, le cose sono destinate a farsi più gravi di prima. A inizio aprile, il governo giapponese ha dato il via libera a una ventina di libri di storia per le scuole elementari in cui ci saranno più riferimenti che mai al "territorio giapponese", come entità unica e indivisibile, in cui comprendere le isole contese (a nord, a sud e a ovest).

Nel secondo caso invece, la questione sembra chiusa. Kato è inizialmente stato incriminato dalle autorità sudcoreane a ottobre dello scorso anno, per un articolo in cui scriveva che la presidente Park Geun-hye, durante l’affondamento del traghetto Sewol, costato la vita ad oltre 300 persone, si trovasse "in compagnia di un uomo". Informazioni diffuse in rete e riprese da Kato nel suo articolo, ma che gli sono valse comunque l’incriminazione per diffamazione e una permanenza forzata in Corea del Sud. Solo pochi giorni fa, Kato è tornato in Giappone, accolto da alcuni come eroe della stampa libera.

Tokyo ha richiesto delle "spiegazioni adeguate" a Seul, che però ha rifiutato di trasformare la vicenda in un nuovo caso diplomatico. Ad ogni modo, il tutto ha contribuito a tenere i rapporti incrinati.

La nuova disputa dei monumenti arriva in un periodo particolare. Da mesi in Giappone si cerca di fare anticipazioni sul discorso di Shinzo Abe nel 70esimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale. A Giacarta, dove la scorsa settimana si è tenuto l’Asian-African Meeting – in un’altro anniversario, il 60esimo dalla conferenza di Bandung – ci si aspettava un primo "indizio" di quale sarà il tono generale del discorso del premier giapponese il prossimo agosto.

E l’indizio è arrivato. Nessuna scusa per il colonialismo e l’aggressione, come da prassi; solo l’espressione di un "profondo rimorso" per la guerra. E questo potrebbe non bastare per convincere i vicini asiatici delle buone intenzioni di Abe & co.