Oggi, in tempi di tensioni geopolitiche e uso (e abuso) dell’espressione “trappola di Tucidide” si parla molto dello sviluppo militare cinese. Ammodernamento tecnologico, commistione pubblico-privato, istituzione di zone grigie, presenza informale in basi militari all’estero, magari lungo le direttrici della Belt and Road Initiative. Ma per comprendere quali sono le radici della dottrina militare e strategica della Cina di Xi Jinping è necessario capire che cosa è successo a partire dalla morte di Mao Zedong nel 1976, quando la Repubblica Popolare sperimentò una trasformazione epocale. Trasformazione che ha avuto di cui è stato protagonista anche l’Esercito popolare di liberazione (circa tre decenni prima della riforma operata da Xi) e del pensiero militare in senso ampio.
La fazione denghista in ascesa, oltre ad integrare elementi di mercato e di commercio estero nell’economia socialista nazionale, propugnò una “transizione strategica” che in ambito militare comportò il passaggio da una dottrina militare maoista di “guerra popolare” ad una di “guerra popolare in condizioni moderne” e, poi, di “guerra locale”. Transizione fondamentale i cui riverberi si sentono ancora oggi. E’ questo il cuore di “Tigri con le ali” (Aracne Editrice), volume scritto da Lorenzo Termine, dottorando in Studi Politici presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Sapienza Università di Roma e ricercatore per il Centro Studi Geopolitica.info, di cui coordina le attività dell’area Cina e Indo-Pacifico.
Il volume di Termine risponde all’esigenza di comprendere più a fondo le basi delle dinamiche di sicurezza e di strategia che hanno pervaso non solo la Repubblica Popolare ma anche l’area dell’Asia Pacifico, con una particolare attenzione alla dinamica strategica intorno allo Stretto di Taiwan, altro tema che oggi rappresenta un punto cruciale delle ambizioni cinesi e della contesa geopolitica globale. Nelle 179 pagine di ricerca si esplora anche il rapporto di Pechino con Washington da una parte e con Mosca dall’altra, un triangolo che resiste anche al giorno d’oggi seppur con equilibri interni molto diversi.
D’altronde, come ricorda nella sua postfazione Simone Dossi, ricercatore in Relazioni internazionali presso il Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università degli Studi di Milano, “il passaggio dalla fine degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta costituisce una fase di straordinaria importanza nella storia della Repubblica popolare cinese, destinata a influenzarne profondamente la traiettoria successiva”. Come sostiene Termine nel suo volume, la fase di grandi aperture e riforme economiche trova il suo corrispettivo in una politica nucleare “di basso profilo”, nel quale la Cina (anche qui) mantiene un basso profilo, accresce le sue risorse (in questo caso militari) e aspetta il suo momento.
Quel momento che Xi ha invece sentito fosse arrivato. Non solo dal punto di vista dell’estroversione geopolitica e strategica, esemplificate dal lancio della Belt and Road ma anche e soprattutto dall’ambiziosa postura diplomatica internazionale, ma anche dal punto di vista militare. Come dimostra la “Riforma della difesa nazionale e delle Forze armate”, approvata alla fine del 2015, che come scrive Dossi ha istituito un “sistema di comando operativo congiunto” interforze facente capo a un neo-costituito Dipartimento di Stato maggiore congiunto della Commissione militare centrale. Uno dei simboli della nuova era di Xi, il principale in campo militare.
Pubblichiamo un estratto, in cui invece torniamo ai tempi di Mao, da “Tigri con le ali” di Lorenzo Termine, per gentile concessione di Aracne Editrice
L’esperienza del “secolo delle umiliazioni” (1842-1949) aveva spinto Mao a riflettere sull’influenza che l’imperialismo occidentale aveva esercitato sulla Cina e il continente asiatico. Pur non essendo stata una colonia in senso stretto, la Cina aveva, infatti, subito un giogo «quasicoloniale»41 a partire dalla prima guerra dell’oppio del 1842 ad opera delle potenze europee, della Russia, del Giappone e degli Stati Uniti. Nella visione maoista, il mutamento internazionale, incluse le crisi e i conflitti tra stati, si poteva spiegare alla luce delle «contraddizioni» che vigevano tra: il fronte imperialista e quello socialista, all’interno del blocco imperialista (ad esempio tra i capitalisti dei diversi stati imperialisti) e all’interno dei paesi imperialisti (ad esempio tra cartelli industriali). Questi conflitti erano da considerare il principale motore del mutamento internazionale, compreso quello che prendeva la forma del confronto bellico.
In questo quadro, il pensiero maoista sull’arma nucleare risulta di notevole complessità perché modellato tanto dall’ideologia marxistaleninista quanto da considerazioni strategiche. Inoltre, Mao dovette fare i conti con le ristrettezze finanziarie che condizionarono Pechino nello sviluppo del suo arsenale atomico44. Nella visione maoista precedente alla decisione di avviare il programma nucleare, la bomba atomica in mano al nemico si sarebbe dimostrata inutile in ogni aspetto. Mao concepiva, infatti, l’espansionismo delle potenze capitaliste come finalizzato all’acquisizione di risorse economiche, energetiche, di manodopera disponibili nei paesi del Terzo Mondo. Conseguentemente, l’arma atomica si rivelava inutile se utilizzata perché avrebbe provocato danni enormi ma distrutto molte delle risorse a cui la potenza imperialista ambiva, senza per questo intaccare la capacità di resistenza del paese attaccato. Inoltre, per Mao gli «uomini» erano «più forti delle armi» e, di conseguenza, una dottrina militare di «guerra popolare» basata sul principio di «attrarre il nemico in profondità» avrebbe neutralizzato anche il valore tattico dell’ordigno atomico. La “guerra popolare”, infatti, ambiva a dissolvere le linee del fronte costringendo le forze ad un combattimento ravvicinato ed al contrasto tramite tattiche di guerriglia e dispersione. Mao concludeva, quindi, che un attacco nucleare nemico non poteva fiaccare la resistenza cinese né dal punto di vista politico, né da quello militare. Infine, se avessero scatenato la potenza nucleare contro un paese del Terzo Mondo come la Cina, i paesi imperialisti avrebbero innescato le proteste di tutta la comunità internazionale con il risultato di dover poi affrontare anche il rischio di venire isolati46. Dopo che i sovietici avevano acquisito il deterrente nucleare, secondo Mao e la leadership cinese l’ombrello di Mosca vanificava ogni possibilità di minaccia o di impiego delle armi atomiche contro la Cina da parte degli Stati Uniti. In sostanza, gli ordigni nucleari non alteravano la dinamica delle contraddizioni interne al sistema capitalistico e, di conseguenza, si limitavano ad accrescere la forza materiale dell’imperialismo occidentale ma non la sua capacità di vincere.
Un momento di svolta per il pensiero maoista sull’arma nucleare è da ricercare nella serie di momenti di confronto con il nemico americano durante la metà degli anni Cinquanta e nel progressivo venir meno dell’egida atomica sovietica. A partire dal 1955, infatti, la posizione di Mao sembrò cambiare radicalmente: dall’osservazione degli eventi in Corea e nello stretto di Taiwan, Mao concluse, infatti, che la bomba modificava l’equilibrio delle forze attraverso l’effetto della deterrenza, in quello che definì il «ricatto nucleare». Scrivendo durante la guerra di Corea, il “Grande timoniere” attestava l’impotenza cinese di fronte al nemico americano per cui «se gli USA avessero colpito la Cina con bombe atomiche, i cinesi non avrebbero potuto fare nulla se non accettare il fatto». In conclusione, la Cina «doveva ottenere questa cosa» (sic) se non voleva «essere minacciata dagli altri». Il proposito veniva confermato anche nel cruciale discorso “Sulle dieci relazioni fondamentali” dell’aprile del 1956, in cui Mao ripeté che la Cina «non poteva rinunciare all’arma atomica».
Tra il 1958 e il 1959 venne prodotto il primo vero documento strategico cinese sulle armi nucleari. Le “Linee guida per lo sviluppo delle armi nucleari” mettevano l’accento sullo sviluppo di una forza strategica basata sull’arma nucleare e termonucleare ad alti rendimenti e su vettori missilistici di lungo raggio mentre escludevano esplicitamente lo sviluppo di armi nucleari tattiche. Parallelamente, il documento ribadiva la natura difensiva della futura arma atomica cinese e il proposito di procedere ad un disarmo internazionale. La preoccupazione, espressa da Ye Jianying nel 1955, circa la possibilità per il nemico di impiegare l’arma atomica con funzione anche tattica52, non trovò alcuna sanzione da parte di Mao ma, anzi, venne confutata ulteriormente in un secondo documento strategico, il “Bollettino delle attività dell’Esercito Popolare di Liberazione”. Pubblicato tra il 1° gennaio e il 26 agosto 1961 dal Dipartimento politico generale dell’Esercito, esso conteneva ventinove istruzioni sulle armi nucleari53. Tra queste spiccava la convinzione che il valore tattico del nucleare potesse essere neutralizzato conducendo una “guerra popolare” di notte e facendo ricorso alla guerriglia, con tanto di dispersione e ricerca di combattimenti serrati con il nemico. I comunicati successivi alle detonazioni chiariscono alcuni concetti centrali dell’approccio cinese alle armi nucleari. La sfiducia seguita all’abbandono sovietico della cooperazione e, più in generale, il crescente disaccordo tra i due paesi era alla base dei continui richiami alla «auto-sufficienza» ovvero alla capacità cinese di essere una potenza autonoma, come sottolineato anche da Zhou nel gennaio 1965. Secondo tali comunicati, lo scopo unico dell’arma nucleare era «difendere e proteggere il popolo cinese dalla minaccia di una guerra nucleare lanciata dagli USA».