Nel silenzio della stampa locale e di quella internazionale, “il problema interno” del Tibet in Cina sta diventando una strage. Giovani tibetani ogni giorno si ardono vivi in nome della “resistenza” anti cinese. Più di sessanta solo quest’anno, di cui dodici nella settimana di Shibada. Lhasa è davvero felice?I tibetani che si danno fuoco, ormai, sembrano non fare più notizia. Da febbraio 2009 sono 77 le persone che si sono auto immolate in Tibet. Più di sessanta nel solo 2012.
Solo l’8 novembre, giorno di inizio del XVIII congresso del Partito comunista cinese, nove persone si sono date fuoco. Nelle zone tibetane in Cina, si sono registrate proteste continue: una situazione ideale per la stampa cinese, che senza mezzi termini, ha attaccato il Dalai Lama e la sua visita dagli acerrimi rivali giapponesi.
Mentre gli oltre 2200 delegati del Pcc di tutta la Cina si riunivano a congresso, la guida spirituale tibetana era infatti in visita in Giappone. “Traditore e strumento nelle mani della destra giapponese”, così il quasi sempre soft China Daily ha definito il Dalai Lama, colpevole di essersi recato sull’altra sponda del Mar cinese orientale e di aver invitato i giapponesi a recarsi in Tibet, per vederne da vicino le condizioni di sofferenza del suo popolo.
In un articolo dal titolo emblematico, “la Cina denuncia l’ipocrisia del Dalai Lama”, Hong Lei, portavoce del ministero degli esteri accusava il leader spirituale tibetano: “la misera performance del Dalai Lama in Giappone, ancora una volta dimostra la sua natura reazionaria e traditrice della patria. Il Dalai Lama si batte per la divisione della Cina, fingendo di portare avanti motivazioni religiose”. A conferma di quanto sottolineato più volte da Pechino, con forza retorica e soft power. Il Tibet è una “questione interna” alla Cina.
Ci risiamo dunque: secondo la Cina il Dalai Lama fa politica e in questo caso, oltre a perorare le sue cause “separatiste”, la guida spirituale tibetana, in esilio dal 1951, minerebbe anche l’integrità territoriale cinese nel rapporto con il Giappone. La sua visita e le sue parole, infatti, porterebbero vantaggi internazionali al Giappone nell’ambito della disputa delle isole contese con la Cina, Diaoyu per Pechino, Senkaku per Tokyo.
Recentemente Cina e Giappone hanno infatti avuto scontri verbali durissimi: in Cina migliaia sono scesi per strada per contestare il comportamento giapponese, ritenendo che la sovranità sulle isole sia indubitabilmente al di qua della Muraglia. Le forze di destra in Giappone “cercano di ottenere il sostegno internazionale per la propria posizione attraverso la visita del Dalai Lama”, ha detto Huo Jiangang, un esperto di studi giapponesi presso l’Istituto cinese delle relazioni internazionali contemporanee, citato dal China Daily. “La Cina – ha ribadito il ministero degli esteri cinese – si oppone fermamente alle attività separatiste del Dalai Lama in qualsiasi forma vengano portate avanti”.
Eppure sono per lo più giovani, inneggianti al Dalai Lama e in numero ormai consistente, a chiedere chiarezza a Pechino con manifestazioni nelle zone tibetane del Paese di mezzo. Durante il Congresso del Partito Comunista, nel corso della conferenza stampa dei delegati tibetani, un diluvio di propaganda ha ubriacato tutti, fino ad arrivare all’affermazione secondo la quale Lhasa sarebbe la città più felice della Cina. Per quanto il Pcc si comporti come se il problema non esistesse, da sempre il Tibet costituisce la questione interna più spinosa per Pechino.
Poco prima delle Olimpiadi nel 2008, violenti scontri scoppiarono in Tibet e nelle regioni limitrofe e la repressione fu durissima. Da allora ogni marzo è periodo sensibile in Cina, specie nelle zone abitate dalla minoranza tibetana, con controlli a tappeto e presenza della polizia cinese in aumento. In occasione del congresso molte sono le zone nelle quali si sono segnalate proteste e controlli ventiquattro su ventiquattro da parte di pattuglie cinesi. La nota blogger tibetana Tsering Woeser ha comunicato via social network di manifestazioni con migliaia di persone e di nuove ronde della polizia cinese in varie zone al confine con il Tibet.
Nonostante né Hu Jintao né il nuovo imperatore Xi Jinping vi abbiano fatto alcun riferimento nei recenti discorsi, il Tibet è qualcosa di più di una spina nel fianco del governo cinese. Per la Cina, il Tibet costituisce ormai una ferita aperta con il mondo occidentale, la macchia sulla patina di neo potenza civile che Pechino sta faticosamente cercando di offrire a livello internazionale.
Proprio il presidente Hu Jintao – che nel 2008 definì il Tibet come una questione tra Pechino e la “cricca del Dalai Lama” – fu il capo del partito che nel 1989 a Lhasa, in Tibet, decretò la “legge marziale” a seguito delle proteste nel 1989. Da allora ad oggi Hu Jintao non ha cambiato atteggiamento riguardo il Tibet. Con il cambio della guardia ai vertici della Rpc, non sono pochi i tibetani che sperano che qualcosa possa mutare.
L’inghippo è però ormai anche retorico, e a poco servono gli inviti ad un generico Free Tibet, né ai tibetani, né tanto meno a Pechino. E la questione ha radice antiche: i tibetani contestano principalmente il fatto di vedere la propria cultura e le proprie tradizioni soffocate dalla lunga mano di Pechino, che sta tentando di trasformare il Tibet in una novella Disneyland sulle vette del mondo. “Buddismo e profitto”, titolava – non a caso – qualche settimana fa un quotidiano di Pechino.
la Cina, invece, celebra ogni anno la cacciata del Dalai Lama come una specie di festa di “liberazione della schiavitù”, identificando nel potere teocratico dei monaci un retaggio del feudalesimo pre rivoluzionario. In fondo in fondo, ogni cinese sul Tibet ha pochi dubbi: è sempre stato e dovrà restare, per sempre e a qualunque costo, cinese.
[Parti di quest’articolo sono state pubblicate su Il Fatto Quotidiano; foto credits: impactlab.net ]