Tibet. Autoimmolazione contro propaganda

In by Simone

La lotta tibetana contro l’occupazione cinese ha un nuovo epicentro, la contea di Ngaba, e segue un’ultima disperata strategia: l’auto immolazione. Tenzin Wagmo, monaca buddista di 20 anni, sì è data fuoco lunedì durante una protesta per chiedere libertà per il Tibet e il ritorno del Dalai Lama riparato in India nel 1959. È il nono episodio di questo tipo in otto mesi. E intanto l’Ufficio di propaganda continua a lavorare sulla stampa cinese.
Il governo cinese ha fondato la sua strategia di propaganda sul Tibet sull’assunto di avere portato lavoro e ricchezza nella regione e di favorirne l’integrazione con il resto del Paese. Di contro gli attivisti per i diritti umani e gli esuli denunciano la continua sopraffazione della cultura e il pugno di ferro contro gli oppositori.
Ma tra auto immolazioni e disordini, il Tibet è tornato di prepotenza a disturbare “l’armonia” sociale cinese. L’ultimo caso – una monaca tibetana che si è auto immolata nei giorni scorsi – ha riportato le istanze tibetani sui media di tutto il mondo. In Cina i media locali sono impegnati a maneggiare la questione con estrema cautela, riportando spesso le parole di Pechino sulla “cricca del Dalai Lama”.

La religiosa si è data fuoco nei pressi del suo monastero, il Mamae Dechen Choekhorling Nunnery, a circa tre chilometri dalla città di Ngaba un enclave nella provincia sud occidentale del Sichuan, parte assieme al Qinghai e al Tibet propriamente detto di quello che è considerata la culla della cultura tibetana. Avvolta dalle fiamme la ragazza ha camminato per strada una decina di minuti cantando e urlando slogan anticinesi. Il suo corpo, nonostante il divieto degli agenti, è stato portato nel monastero, dove è stato vegliato dalle oltre 350 consorelle.

Il giorno prima a immolarsi era stato un monaco diciannovenne, Norbu Dramdul, proveniente dal monastero di Kirti, teatro a marzo di una serie di proteste sull’onda della sollevazione pre-olimpica del 2008 contro l’autorità di Pechino, e da allora sotto stretto controllo delle forze di sicurezza. Sempre nel Sichuan, davanti a un commissariato di polizia, gli agenti hanno aperto il fuoco su una manifestazioni per chiedere maggiore libertà. Negli scontri sono rimasti feriti due giovani.

Per Pechino tali gesti di disperazione sono stati occasione per attaccare il Dalai Lama e quella che considera “la sua cricca”, ossia il governo tibetano in esilio a Dharamsala, accusati di non fare niente per impedire una pratica in contraddizione con gli insegnamenti buddisti.
Un’operazione di polizia  avrebbe rinvenuto vari depositi di armi. Tutto quetsto a conferma delle intenzioni bellicose dei tibetani. La macchina propagandistica cinese si stia muovendo per ovviare al rischio di nuove rivolte in Tibet: da una parte i monaci e le popolazioni tibetane di regioni cinesi come il Sichuan, dall’altra Pechino tesa a denunciare la cricca del Dalai Lama e la “violenza” dei tibetani contro il potere centrale cinese.

Il South China Morning Post ha riportato la notizia direttamente da Xinhua, l’agenzia ufficiale cinese, secondo la quale sarebbero stati arrestati diciassette presunti trafficanti di armi, “in una situazione in cui si registra un innalzamento della sicurezza in tutto il sud a seguito di una serie di nove auto-immolazioni in segno di protesta contro il regime repressivo di Pechino. Il rapporto non ha fornito dettagli sulle tempistiche degli arresti o la nazionalità degli arrestati. Inoltre non sono stati identificati gli acquirenti o le persone cui le armi erano destinate”.

Due persone sono stati catturati nei pressi del confine con la Birmania, mentre gli altri indagati sarebbero stati arrestati a Lhasa e all’interno delle prefetture autonome tibetane a Ganzi, nel Sichuan, e Diqing nello Yunnan. “La polizia – secondo quanto riportato dalla Xinhua – ha detto che i sospetti hanno confessato di aver iniziato il traffico di armi dalla Birmania nel 2009”. Avrebbero rivenduto poi l’arsenale a persone che abitano nelle regioni tibetane del Sichuan e dello Yunnan. “L’arsenale”, di cui Xinhua ha scritto con grande enfasi, si limiterebbe a otto pistole, un fucile e 267 proiettili.

Secondo la Xinhua, “la polizia avrebbe registrato questo traffico di armi da molto tempo, con persone in grado di approfittare dei conflitti interni in Birmania, per tirare fuori armi e rivenderle”. L’indagine era iniziata infatti nel 2009, quando venne scoperto un giro di armi di contrabbando, con il conseguente arresto di 11 persone.

Questo giro di vite pechinese ha finito per aumentare la generale situazione di sicurezza nelle zone abitate dai tibetani, finendo per aumentare gli episodi di “resistenza”. “Questi atti – aveva specificato nei giorni scorsi un portavoce dei monaci tibetani – sono causati dalle restrizioni sui monasteri in queste particolari località e sono causati dalla maggiore presenza della polizia in quelle aree. I monaci non possono muoversi liberamente e il desiderio generale che il governo cinese rispetti i diritti umani fondamentali del popolo tibetano ha portato la gente a darsi fuoco. Un tema costante è l’augurio al ritorno del Dalai Lama

I funzionari di polizia e del governo del Sichuan hanno detto di non essere al corrente degli ultimi incidenti, mentre a Pechino, un portavoce del ministero degli esteri ha riferito in conferenza stampa di essere ancora in cerca di informazioni sulle più recenti auto-immolazioni. Liu Weimin, ha dichiarato: “crediamo che l’incoraggiamento di tale comportamento a costo della vita umana sia immorale”.

Non a caso nei giorni scorsi la Xinhua aveva offerto al suo pubblico l’intervista ad un vecchio monaco tibetano del Sichuan che aveva definito l’auto-immolazione come una forma di “estremismo che degrada il Buddismo”, aggiungendo che aveva provocato “sconcerto pubblico e repulsione”.

[Parti di quest’articolo sono già state pubblicate da Andrea Pira su Terra, altre da Simone Pieranni su Lettera 43]