Quando la Cina ha compiuto dieci anni io c’ero, ero proprio lì: studiavo all’Università di Pechino dove celebrammo «il glorioso decennale», in un tripudio di statistiche, di fiori rossi di carta, di canti e balli. Non voglio pensare e nemmeno ripensare ai fatti di allora, li cito soltanto alla rinfusa: Tibet «liberato», nascita delle comuni popolari (si cantava «il comunismo è il paradiso, la scala per arrivarci è la comune popolare»), il grande balzo in avanti, (stringere la cinghia per raggiungere l’Inghilterra in due anni), morte ai passeri, abbasso gli elementi di destra e,ancora, «ma quanta boria questi sovietici». Cominciò allora il confronto prima ideologico e infine anche armato, tra Cina e Urss che andò avanti imperterrito fino al crollo: dell’Urss, non della Cina popolare. Che compie, per l’appunto, 70 anni.
C’ero quando furono costituite le comuni popolari e quando furono smantellate per tornare all’appezzamento di terra privato. Anche questa volta «io c’ero», e vidi famiglie contadine andare in giro felici accatastate sui trattori ex proprietà delle comuni, mentre ovunque nei villaggi si giocava a biliardo su tavoli improvvisati con stecche di bambù, dimostrazione che il ping-pong di ordinanza non attraeva più le masse. Ho anche incontrato i nuovi ricchi che la gente considerava mascalzoni e ladri.
Alla nascita del modello di Shenzhen ho assistito di persona nel 1990. In quello che fino a dieci anni prima era un villaggio di pescatori, si sperimentava il capitalismo, con grattacieli e mendicanti, bordelli, case da gioco, ristoranti di lusso, shopping-center con le scale mobili e lavoratori, non classe operaia, non più. Si potevano definire dei figuranti, come lo erano gli imprenditori, tutta gente mandata in quel luogo allo scopo di imparare il capitalismo. Hanno imparato tanto bene e tanto in fretta che, come si vede nel documentario American Factory su Netflix, hanno comprato una fabbrica in Ohio e le maestranze cinesi danno dei punti agli operai americani che sono per lo più persone di mezza età, bolse, inefficienti, che vogliono turni di otto ore, pretendono addirittura un sindacato. I cinesi invece sono efficienti, giovani, snelli, gli sta bene il turno di dodici ore e la mattina cantano l’inno aziendale.
In pratica ho assistito a tutte e tre le fasi della storia della Repubblica popolare: la prima è stata quella de «la Cina si è levata in piedi!» la fase di Mao, dopo è subentrata la fase di Deng «arricchirsi è glorioso» e adesso si è giunti alla terza fase, quella di Xi «la Cina diventi potente». O lo è già diventata? Dipende, un po’ dalla difficoltà di tradurre l’enunciato con i nostri tempi verbali, un po’ dalla percezione che si ha dell’impatto globale dell’economia cinese.
La scelta delle date o degli eventi che sottolineano il tempo politico ha sempre un profondo significato perché si riconosce alla data o all’evento scelto, un senso di vero spartiacque, di cambiamento, in un processo non continuo del quale si vuole invece far risaltare una sorta di continuità, come se tutto si svolgesse secondo un filo senza impigli di nodi e cesure.
Ora che la mia visione di prima mano dei fatti cinesi si è rarefatta in brevi visite, prendo sempre più spesso spunto di riflessione da quanto si scrive in Cina e a quali temi si dà più risalto nell’era di Xi. Ebbene, ce n’è uno che ha attirato la mia attenzione, cioè il tema della tradizionale concezione cinese di Tianxia, traducibile come «quello che sta sotto il cielo» oppure l’universo, il mondo, la Cina. Quando ero a Beida, l’Università di Pechino, non si usava questo termine, lo sentii per la prima volta da una lavandaia che disse «tianxia yi jia», siamo un’unica famiglia sotto il cielo. Uno studente scrisse una volta su un dazebao (c’erano già allora, prima della Rivoluzione culturale) che il partito comunista era un tianxia dang , alludendo chiaramente alla sua vocazione totalitaria, e fu condannato come elemento di destra.
Tianxia era un’espressione che veniva dalle epoche più remote, da assai prima che la Cina si chiamasse Zhongguo, una concezione pre-moderna forse di uno spazio reale, forse di una dimensione ideale, forse di tutte e due. All’epoca del Movimento del 4 maggio, quando la lingua cinese scritta e parlata fu rinnovata con nuovi concetti, li si tradusse con dei neologismi, come popolo, storia, filosofia ecc.; il Tianxia non venne nemmeno considerato perché giudicato un modo di dire retorico, da usare nei proverbi o nelle frasi fatte. Rimase dunque puramente cinese. Scrive la critica cinematografica, marxista e femminista Dai Jinhua nel suo After the post- Cold War ( un libro dalle infinite suggestioni) che il Tianxia venne «ibernato» e proprio per non aver niente a che spartire con la modernità di stampo occidentale ha potuto essere scongelato e utilizzato nel tentativo di cercare l’alternativa di un’autentica «via cinese» allo sviluppo del movimento comunista e alle lotte di liberazione degli oppressi.
Conobbe quindi un revival all’epoca della Rivoluzione culturale quando Mao stesso, e le Guardie Rosse usarono Tianxia nei loro proclami e slogan come «questo Tianxia è il nostro Tianxia!» che può anche essere interpretato e tradotto come «mondo», solo che nel contesto internazionale dell’epoca si presentava come il mondo della rivoluzione socialista in corso o a venire, non l’universo mondo, almeno non ancora.
E dopo silenzio, non più menzione di Tianxia, fino all’apparizione, nel 2003, del film Hero di Zhang Yimou. In After the post Cold-war, Dai jinhua, analizza le infinite sequenze di kungfu, gli spadaccini che volano, le immagini di una Cina eterna come la si poteva sognare a Hollywood, e dove , secondo lei, tutta l’essenza, o la morale della storia sta nel concetto di Tianxia, i due caratteri che a mala pena si intravedono perché tracciati sulla sabbia da Spada Spezzata: e la morale sarebbe che il re di Qin , anche se è un tiranno crudele, non deve essere ucciso perché è l’unico che può unificare il Tianxia, e difatti passerà alla storia come Qin il Primo Imperatore.
Da allora, nella cultura popolare sempre più globalizzata, Tianxia emerge come uno spazio fluttuante senza tempo, nei videogiochi (il primo videogioco prodotto e ideato in Cina si chiama Tianxia) in fantaromanzi e in serie televisive. Ma in contrasto con questa distorsione popolare, si assiste anche a una rinascita nei circoli accademici ufficiali del concetto originale di Tianxia come alternativa globale non tanto al capitalismo ma all’Occidente tutto. Viene introdotto un neologismo Tianxiazhuyi coniato da Sheng Hong che lo mette a confronto, abbinandolo a zhu yi (-ismo in cinese), a tutti gli -ismi venuti dall’Occidente con la modernizzazione, ma ne decreta allo stesso tempo la superiorità perché intraducibile, è puro cinese.
Lo è perché la Cina ormai non ha più bisogno di rifarsi a idee importate all’Occidente ma deve affermare come -ismo il suo ideale cosmopolita che segna la via della pace universale.I sostenitori del Tianxia sono tutti professori universitari, membri di Accademie o di prestigiosi circoli think tank, non sono tutti d‘accordo ma la parola chiave è per tutti Tianxia. Zhao Tingyang sostiene, per esempio, che l’Occidente non ha concepito o sviluppato una teoria del «mondo» ma soltanto delle teorie delle relazioni internazionali e questa incapacità di pensare al mondo come categoria unica e irriducibile ha come conseguenza che la teoria politica moderna non riconosce l’interesse comune al di là dello stato-nazione e conduce all’intensificarsi della competizione tra stati nazione.
Propone quindi un ritorno al Tianxia dove sono tutti uguali, non ci sono esclusi. Per Xu Jilin che auspica l’avvento del Nuovo Tianxia, certi tratti del sistema tributario del vecchio Tianxia possono servire anche nel nuovo per le relazioni tra stati perché il sistema tributario dell’impero costituiva una rete complessa etica, politica e commerciale all’insegna del mutuo interesse.
In definitiva, tra i cultori del nuovo Tianxia forse prevale il desiderio che sia giunto per la Cina il momento di dare il suo contributo di pensiero all’umanità, desiderio condiviso da Xi Jinping . Cito a questo proposito il saggio di Jiang Shigong Fìlosofia e storia, una interpretazione dell’era di Xi Jinping nel quale si sottolinea l’importanza data da Xi Jinping nella sua relazione al XIX congresso del partito comunista (2017) all’integrazione tra pensiero tradizionale cinese e teoria del comunismo. Scrive Jiang, interpretando Xi «…il comunismo non sarà mai quello che era all’epoca di Mao, un qualcosa che doveva assumere una forma sociale reale qui e ora, ma è invece la fede e il supremo ideale del Partito…il comunismo non è soltanto una bella vita futura ma è anche soprattutto la condizione spirituale dei membri del partito nella pratica della vita politica…nel contesto della tradizione culturale cinese, la comprensione di questo supremo ideale non è più quella di Marx il cui pensiero dipendeva dalla tradizione teorica occidentale…ma è intimamente legato alla Grande Unione del Tianxia) della tradizione culturale cinese».
Senza dubbio i teorici del Tianxia sono stati surclassati anche se a loro va riconosciuto il merito di aver disquisito solo di Tianxia, non di comunismo. Ma ci si domanda: sono loro che hanno preparato la strada all’era di Xi Jinping o è stato il pensiero di Xi ad averli ispirati?
Di Renata Pisu*
**sinologa e giornalista del quotidiano La Repubblica
[Pubblicato su il manifesto]