La censura è un modo per mantenere lo status quo e "per stimolare la creatività". Ma è anche business e posti di lavoro. E l’esercito dei censori viene spostato dove il lavoro costa meno. Così nella Tianjin di Zhang Gaoli, in un ex villaggio di pescatori ora centro della finanza, è nata la città della censura.
Succede in Cina, a Tianjin, e si tratta di segnali per niente incoraggianti circa il nuovo corso cinese, nonostante voci che si levano dalla stampa locale promettano più libertà. Tianjin, dicevamo. Il fautore della città della censura, ovvero un accumulo di dipartimenti censori delle più importanti e- companies cinesi è infatti Zhang Gaoli. Non uno qualunque, bensì uno dei nuovi sette timonieri, recentemente nominato nel Comitato Permanente del Politburo, cuore politico cinese.
Zhang Gaoli passa per un riformatore finanziario: si è formato nel Guangdong, il polmone del made in China, ha chiesto ad investitori stranieri di andare a Tianjin che è diventata in pochi anni uno dei centri propulsori dell’economia cinese. A un tiro di schioppo da Pechino, quaranta minuti circa con il treno proiettile, Zhang si è messo in mostra, così vicino alla Città Proibita.
E ha immaginato la città della censura, che piano piano ha preso forma. Da dove arrivano infatti le schermate, “spiacenti, questo contenuto non può essere visualizzato"? Da tante persone che stanno a Tianjin: Sina Weibo, per il popolare servizio alla Twitter cinese, ma anche Youku, uno dei tanti YouTube cinese e non solo.
Migliaia di persone ammassate in un ex-villaggio di pescatori, novello centro del controllo su Internet. “La censura è un tipo di lavoro di fascia bassa ad alta intensità di lavoro, per cui è più facile spostare queste operazioni in luoghi dove il costo del lavoro è più basso”, ha dichiarato Li Zhi di Analysys, una società di ricerca Internet con sede a Pechino, al Financial Times.
Secondo Jobui, un sito cinese per ricercare lavoro, il salario medio mensile dei censori internet di Pechino è di 4,081 rmb (512 euro), a Shenzhen di 3, 714 rmb, mentre a Tianjin di 2, 998 rmb. Non male per un salario cinese, considerando che chi invece lavora con materiali pericolosi e tossici, ad esempio, in una fabbrica di giocattoli, non ottiene 200 euro al mese, anche lavorando 12 ore al giorno.
Youku Tudou, dicevamo, la più grande società di video online cinese, “sta pensando di trasferire le sue operazioni di censura a 170 chilometri da Pechino, nella città costiera di 10 milioni di persone”, hanno scritto i media.
“Stiamo parlando di trecento, quattrocento persone, e non c’è ragione per cui queste persone debbano essere a Pechino o Shanghai, dove gli stipendi stanno andando alle stelle”, ha detto una persona familiare con i piani della società al quotidiano inglese Financial Times.
Apparentemente niente di nuovo sotto il sole dunque: siamo abituati ad associare alla parola Cina, anche la parola censura. Ed è certamente vero. Si tratta di capire però in che modo poi la censura venga attuata, e al riguardo negli ultimi tempi ci si aspetta grandi passi in avanti.
Ed è anche necessario specificare, ancora una volta, come la censura cinese ormai lavori e come – al contrario – tanti temi siano molto più permessi rispetto a qualche anno fa. Il tentativo di controllare internet sembra una corsa contro il tempo e contro il futuro da parte del Partito comunista. Eppure nonostante questo, possiamo dire che l’ambiente internet cinese è poco sensibile a questo tema. La censura si conosce, si sa perfettamente quanto verrà censurato e ci sono molti modi attraverso i quali superarla.
È un paradosso ma per i cinesi, la censura, costituisce ormai un valido motivo di sfida con il governo e con i censori. Una guerra aperta, senza tentennamenti, ed anzi, secondo molti degli attivisti incontrati in questi anni costituisce uno stimolo in più alla creatività.
In attesa dunque delle riforme, la Cina progredisce sul doppio binario: censurare i contenuti ritenuti pericolosi dal Partito Comunista e guidare, attraverso la censura, i dibattiti online, consentendo anche velate critiche. Purché non mettano in discussione lo status quo, naturalmente.
[Scritto per Wired; Foto credits: intellasia.net]