“Figlia dei campi di sterminio”. Così ama definirsi Theary Seng, che alla fine degli anni ’70 vide i propri genitori venire trucidati dai Khmer rossi. La sua storia è una storia di sofferenza, attivismo e coraggio. Fortemente critica nei confronti del premier Hun Sen, la donna è stata recentemente condannata a sei anni di carcere per “tradimento”.
“Io sono Lady Liberty. Sono la libertà. Io sono il tuo respiro. Non puoi vivere bene senza di me. Io sono i colori che arricchiscono la tua vita. Sono la musica che nutre la tua anima. Io sono l’ossigeno che respiri. Questo regime autocratico vuole impedirti di respirare. Questo regime autocratico vuole imprigionare la libertà”. Sono le parole pronunciate lo scorso 14 giugno dall’attivista cambogiana, Theary Seng, davanti al tribunale di Phnom Penh poco prima di venire arrestata. In una mano tiene la torcia della libertà, nell’altra una tavoletta con la scritta “Paris Peace Accord, 23 October 1991”: il trattato che pose fine alla guerra civile avviando una fase di stabilità e pacificazione della Cambogia.
Lo stesso giorno la donna viene condannata a sei anni di carcere per “tradimento”. Il governo non ha gradito le critiche indirizzate su Facebook al premier Hun Sen, l’ex guerrigliero dei Khmer rossi che (dopo aver rinnegato il dittatore Pol Pot) amministra il paese col pugno di ferro da quasi quarant’anni. Quel che è peggio, secondo l’accusa, tre anni fa Seng avrebbe tramato per riportare in patria Sam Rainsy, l’ex capo in esilio del Cambodian National Rescue Party (CNRP), il principale partito di opposizione formalmente bandito e disciolto nel 2017.
La sentenza è stata confermata in appello il 3 ottobre dalla Corte suprema. Altri cinquanta dissidenti ed esponenti dell’opposizione hanno ricevuto pene tra i cinque e gli otto anni di reclusione, la maggior parte in absentia.
Dai campi di sterminio alla difesa della democrazia
“Figlia dei campi di sterminio”. Così ama definirsi Theary Seng, che alla fine degli anni ’70 vide i propri genitori venire trucidati dai Khmer rossi. Si stima che circa un quarto della popolazione locale abbia perso la vita durante la cosiddetta “purificazione della Cambogia”. Nella sua autobiografia (Daughter of the Killing Fields, London, 2005), Seng ricorda il “tanfo della carne umana” e l’ultimo risveglio tra le braccia della madre. Morta.
Quella di Seng è una storia di sofferenza e coraggio. Nel 1979, all’età di 7 anni, l’attivista riesce a scappare in Thailandia con alcuni parenti. Trascorso un anno in un campo profughi, viene accolta con il resto della famiglia da una congregazione cristiana a Grand Rapids, nel Michigan. Poi, ottenuta la cittadinanza americana, si laurea in giurisprudenza e diventa un avvocato per la difesa dei diritti umani. Ma il richiamo della terra è troppo forte. Il passaporto straniero – spiegava tempo fa a Radio Free Asia – non diventerà mai una scusa per sfuggire ai propri doveri civici. Così nel 2004 Seng torna a casa per “resuscitare” la società civile cambogiana. Una missione a cui dedica tutta la sua vita, rinunciando a sposarsi e avere figli. Prima assume la carica di direttore esecutivo del Centro per lo sviluppo sociale, poi fonda il Centro cambogiano per la giustizia e la riconciliazione, infine il Centro per l’educazione civica cambogiana. Voleva “arginare il tuffo completo della Cambogia nell’autocrazia”, racconta nelle sue memorie.
Sotto la guida di Hun Sen, l’opposizione politica cambogiana è stata annientata. Sam Rainsy e l’altro leader del CNR, Mu Sochua, sono stati condannati al carcere e banditi dal paese. Kem Sokha, il terzo dirigente del vecchio partito, ha lasciato i domiciliari ma è ancora in attesa di un processo per tradimento che si trascina da anni. La repressione è aumentata dopo che nel novembre 2019 Sam Rainsy aveva dichiarato di voler rimpatriare. Da allora centinaia di attivisti e oppositori politici sono stati arrestati.
I ricordi dell’infanzia hanno inseguito Seng per tutta la vita. Negli anni, ha trovato conforto nella fede e nella scrittura. Diventata cristiana praticante, si è mantenuta “culturalmente buddista” pur sviluppando un proprio “sistema di credenze giudeo-cristiano”. “Ciò che mi ha salvato è stata la calligrafia”, racconta nella sua autobiografia. Coniugando la religione all’arte della scrittura, l’attivista ha ricopiato tutto il Libro dei Salmi. Un’operazione catartica che ha alleviato, ma non curato completamente le vecchie ferite.
Quando il passato riemerge, il dolore torna a farsi sentire. Così è stato quando Seng ha testimoniato nel processo contro Khieu Samphan, l’ultimo leader dei Khmer rossi ancora in vita, condannato il 22 settembre all’ergastolo in via definitiva per crimini contro l’umanità, genocidio e violazione delle Convenzioni di Ginevra. Un incontro “surreale” – lo ha definito la donna – che le ha suscitato sofferenza e odio. Ma anche una strana attrazione nei confronti di quel novantenne, spietato, sì, eppure così affabile e carismatico.
La reazione della comunità internazionale
La popolarità e – soprattutto – il passaporto americano hanno dato all’avvocata cambogiana una notevole visibilità anche oltremare. Cinque settimane dopo la sentenza, la Commissione per le relazioni estere del Senato Usa ha rilanciato un disegno di legge a lungo in fase di stallo (il Cambodia Democracy and Human Rights Act of 2022), che minaccia sanzioni contro gli alti funzionari cambogiani sospettati di violazioni dei diritti umani. Hun Sen compreso. Secondo Phil Robertson, vicedirettore per l’Asia di Human Rights Watch, portando avanti “l’intimidazione e la persecuzione dei critici del governo”, l’ex militante dei Khmer rossi “dimostra il suo totale disprezzo per i diritti democratici”.
Mentre il passato non si cambia, il corso futuro della storia è ancora tutto da scrivere. Prevenire un’altra tragedia è ancora possibile.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.