The Leftover of the Day – Un insano conformismo

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
26 marzo 2010, 11:18
Un insano conformismo

Al dunque mi sembra sempre si torni al problema di fondo: una diversa concezione dell’individuo e del raggio di azione che da questo si emana. Ho l’impressione che molte incomprensioni tra noi – che mi appaiono ormai strutturali – derivino da questo. Forse è un’analisi superficiale, eppure si impone come determinante in alcune delle nostre stanche, fruste conversazioni. Due esempi.

1. Fino a qualche giorno fa, delle elezioni regionali non gliene fregava nulla. Del ritardo nella presentazione delle liste: nulla. Del decreto salvaliste: nulla. Delle manifestazioni: tanto meno.
Poi lo chiama un collega chiedendogli se ne scriverà qualcosa, e il dubbio lo assale. Così mi chiede un po’ di materiale.
La richiesta principale è la seguente: “We have to draw a line to explain in which case Berlusconi wins and in which case he really loses”.

Gli domando più volte di spiegarmi questa affermazione, non capisco esattamente cosa voglia. Gli spiego che posso dargli qualche sondaggio (e siamo fuori tempo massimo, visto che sono già scattate da un pezzo le due settimane della par condicio) e qualche editoriale sul tema elezioni. Ma aggiungo che non ho letto nulla di così specifico e così “numerico” sulle elezioni – perché lui vorrebbe una serie di scenari in cui si dice: se Berlusconi vince 7 regioni, significa che ha vinto le elezioni; oppure: se la sinistra prende 8 regioni, ha vinto. Gli dico che il discorso è più articolato, perché manca la Provincia di Roma e perché dipende anche dalle regioni in cui si vince…

Insomma, alla fine rinuncia a scrivere il pezzo, perché non c’è nulla nei media italiani che risponda alla sua esigenza (né in quelli stranieri, di cui gli faccio una rapida carrellata). Quando legge i commenti altrui, per esempio Bill Emmott, resta perplesso: sono troppo personali. Non ho capito se (e come è articolato) c’è un minimo spazio per gli editoriali nei quotidiani giapponesi.

L’impressione è che abbia necessità di un’autoctoritas che legittimi l’articolo, il che implica sempre analisi, sondaggi e dati numerici, come se la (pretesa) scientificità potesse spiegare fenomeni che di scientifico hanno poco (almeno finché non sono conclusi e dunque analizzabili a posteriori). Lui non si assume la responsabilità di fare valutazioni, che non significa prendere posizione, ma significa presentare ai lettori delle vicende nel modo più onesto possibile, senza anticipare risultati – che non possono esserci.
Conclude la questione dicendo: “L’articolo lo scriveremo dopo, perché ora non si sa come andrà a finire”.
Ma va?

2. L’altra occasione in cui mi viene da riflettere sulla minuscola porzione di libertà concessa all’individuo in Giappone scaturisce da una conversazione all’ora di pranzo (il solito momento propizio). Si parla di pena di morte e, poiché abbiamo già ampiamente litigato in merito, io mi tengo in disparte. Lo sento allora ripetere le stesse argomentazioni con la mia nuova collega (nonché amica) italiana che, magari con esempi diversi, segue lo stesso percorso di obiezioni che seguii io con lui quando parlammo di questo tema.

Forse noi europei siamo troppo dogmatici e forse difendiamo con una qualche presunzione le nostre idee universali (e, personalmente, ne vado pure un po’ fiera, lo ammetto), però sentirsi dire che la pena di morte è qualcosa di culturale, di tradizionale, di radicato nell’identità giapponese, resta difficile da accettare. Inutile citare Beccaria, inutile lanciarsi su grandi dissertazioni sui diritti dell’uomo. Fin qui, comunque, niente da dire: posizioni antitetiche, tutto qui.

Mi fa però specie che lui si continui ad arrabbiare, a tre anni di distanza, perché D’Alema, in viaggio a Tokyo, aveva invitato a una riflessione sulla pena di morte. Ho cercato qualche articolo (per esempio questo ) e il tono dei quotidiani italiani è molto sereno, mentre in Giappone questo gesto è stato considerato un atto di illegittima intrusione e la spia di un persistente atteggiamento colonialista.

Lui dice che nessuno può permettersi di imporre nulla, e chi lo nega?, gli dico io, magari però si può aprire un dibattito, perché no? Lui replica che, come individuo, ha qualche dubbio sulla pena di morte, ma che, se gli domandassero se vuole conservarla o no, lui voterebbe comunque a favore. La ragione? Perché la maggioranza dei giapponesi lo vuole.

Ecco qui: il chiodo che non può sporgere, l’abitudine al conformismo. Talmente radicata che è quasi preventiva. La maggioranza (o quella che io ritengo la posizione della maggioranza) non può sbagliare.
Come quando mi disse che, se fosse stato italiano, probabilmente avrebbe votato il Pdl, anche se non gli piace, perché ha senso, da italiani, perseguire gli interessi nazionali a scapito degli immigrati. Da straniero, aggiunse, se avessi la possibilità di votare in Italia, voterei Pd.
No comment.

P.s. A onor del vero, qualche giorno dopo c’è su Repubblica l’articolo che cercava come fonte, ma ormai è troppo tardi!

26 marzo 2010, 17:03
Follie nipponiche

1. Il robot cronista (in sintonia perfetta con alcune delle considerazioni sulla perversa meticolosità e la precisione del giornalismo giapponese)

2. Tutt’altro genere di perversione: l’uovo per masturbarsi

26 marzo 2010, 17:20
Cosa deve fare uno scrupoloso giornalista in caso di terremoto

C’è un manuale per ogni occasione, c’è una regola per ogni circostanza, c’è una legge codificata che ti perseguita sempre e comunque. Anche in caso di terremoto. Il lavoro prima di tutto. Ed ecco perché c’è anche un Manuale per il giornale in caso di terremoto: ovvero le istruzioni per i giornalisti in caso di terremoto.

Ce lo racconta rapidamente. Nel suo caso, per la sede di Yokohama, il Manuale dice che il giornalista deve subito imbarcarsi e andare a largo della costa per vedere cosa accade in mare.
Giustamente, osserva lui, chi ti ci porta in mare con il rischio di Tsunami? E perché dovrei andarci io e non pensare a salvare la pelle?
E tutto questo, mentre, sempre secondo disposizione del medesimo Manuale, il presidente del giornale deve essere prelevato e messo su un elicottero.

“Like the U.S. President!”, gli dico io. Non può che annuire sconsolato.

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)