Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
27 maggio 2010, 10:49
Prime impressioni
Temo che il peggio cominci ora. Forse non avevo capito davvero niente.
È arrivato il nuovo.
Arrivo in ufficio scrupolosamente in orario: almeno il primo giorno va fatto. Poi non so se riuscirò.
Ovviamente dentro ci sono già entrambi. L’effetto visivo è subito sorprendente e indicativo: lui in pantaloni chiari e camicia sbottonata sul collo, il “nuovo” (per un po’ lo chiamerò così, visto che la sua identità si riduce a questo) con la sua camicia bianca con cravatta e i pantaloni blu con la riga davanti.
Ciò che mi spaventa, oltre alla cravatta in sé per sé che già denuncia lo stile impiegatizio nipponico, è anche il modo in cui li indossa quei pantaloni: abbastanza in alto sulla vita, pericolosamente a rischio Fantozzi.
Sembra piccolissimo, ha 41 anni, ma sembra un ragazzino più di me. Ed è ovviamente di una rigidità sconcertante. Io mi siedo alla mia scrivania ma lui rimane in piedi a ondeggiare e mi si avvicina per porgermi con due dita il biglietto da visita – cosa surreale visto che i numeri che ci sono scritti sono quelli dell’ufficio di Roma! – per non deluderlo, acconsento alla pagliacciata e gli do anche il mio. Così ci siamo scambiati gli stessi recapiti: fantastico.
Poi cerchiamo di intavolare un minimo di conversazione. Il suo inglese è quasi peggio del mio, e i suoi discorsi, come spesso capita con i giapponesi, sono intervallati da pause imbarazzate e imbarazzanti che ricalcano quelle della lingua giapponese. Vorrei sotterrarmi.
Mi chiede se sono mai stata in Giappone. Gli dico di sì e gli racconto anche che ho visitato la sede del giornale due anni fa. Lui mi domanda: all’epoca già sapevi che avresti lavorato per un quotidiano giapponese? Gli rispondo: beh, all’epoca ci lavoravo già! Sennò secondo te perché sarei andata, vorrei aggiungere, ma ovviamente non lo faccio.
Vedere l’altro giapponese aggirarsi per l’ufficio ripulendo la sua scrivania mi fa venire tristezza e mi accorgo che rischio seriamente di mettermi a piangere, come una bambina che si è persa nel supermercato il papà.
Per fortuna il nuovo se ne va: deve risolvere le questioni pratiche, in primis. Appena quello esce, lui entra nella stanza e ci mettiamo a ridere, subito dopo commentiamo in modo moderato, ma ci siamo capiti.
Mi dice che si erano dati appuntamento alle 9 in ufficio. Ma che quando lui è arrivato il nuovo era già dentro. “Very Japanese”, aggiunge.
E non è un buon inizio.
27 maggio 2010, 17:03
Sospetti
Il primo giapponese lancia enigmatiche ombre sul nuovo arrivato.
Tutti concordiamo sul fatto che sembra giovanissimo, ma veniamo così messi in guardia: "Si tinge i capelli!"
Poi dice che forse lo farà anche lui al suo ritorno – pare proprio, come confermato da altre voci – che sia una fissa per i giapponesi quella dei capelli tinti.
Provo a dissuaderlo. Chissà se la prossima volta lo vedrò coi capelli e i baffi nero corvino…
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)