Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
15 febbraio 2010, 11:27
Piccole foche crescono
Attacca il telefono scocciato. Ha appena parlato con un funzionario dell’Ambasciata e mi dice: “Ecco cosa succede in Giappone: vanno nelle migliori scuole e poi sono dei cretini!”. In che senso?, domando. “Nel senso che imparano tutto meccanicamente e in realtà non sanno fare nulla”.
Abbiamo parlato della scuola in Italia, il discorso è ancora fresco e lui lo riprende, spostandolo sul Giappone. Mi racconta che in Giappone la competizione inizia molto presto, che spesso i bambini, una volta finite le lezioni della giornata, tornano a casa, cenano e poi frequentano lezioni supplementari. Questi corsi integrativi servono ai bambini per superare le prove di ingresso delle scuole private e solo chi accede a quelle più prestigiose può garantirsi una carriera. Gli chiedo se la differenza tra scuole pubbliche e private è così significativa. E lui sostiene di sì, che solo se si manda il proprio figlio in una privata, c’è una qualche speranza per il suo avvenire. Così spesso anche i bambini sono dei frustrati.
Mi vengono in mente, mentre parliamo, alcune parole di Tiziano Terzani sul sistema scolastico giapponese. E vabbene che erano i primi anni Novanta, e vabbene che non so com’è oggi, ma se tanto mi dà tanto “le foche ammaestrate” di cui parla Terzani restano ancora l’obiettivo da raggiungere per la compiuta formazione nipponica. Il discorso di fondo è sempre quello del conformismo, come virtù verso cui tendere, e dunque della scomparsa dell’individuo.
Mi viene in mente anche un proverbio che lui spesso mi ha citato – fortunatamente mai per convertirmi, ma solo per illustrarmi la mentalità del Giappone nei suoi aspetti più deleteri: Il chiodo che sporge, va preso a martellate. In un cortocircuito di immaginari, sovrappongo all’idea dei piccoli soldatini giapponesi chini sui loro libri, intenti nella memorizzazione dei gesti per comporre i kanji o delle procedure di scrittura (tutto è procedura, mi pare), quella degli studenti medievali: anche loro rigorosamente disciplinati dai modelli codificati dalla Scolastica.
15 febbraio 2010, 16:29
Biglietti da visita
Che in Giappone siano importanti è cosa nota. Così come è conosciuto il rituale per porgere il biglietto alla nuova conoscenza (sempre sorreggendolo con le mani sui bordi, per favore).
Lui deve farne di nuovi per sé. Non sa ancora quanto si fermerà in Italia e dunque decide di non chiederli a Tokyo (mi spiega: e se lo prendessero come un messaggio? Se pensassero che voglio così chiedere quando arriva il momento per me di tornare a casa? Nota a margine: l’importanza del non detto per i giapponesi, che non a caso non dicono mai di no esplicitamente); se li fa fare in Italia. Viene contattata la stessa tipografia che li aveva stampati per me. Mi domanda se quando sono arrivata li ho trovati sulla mia scrivania. Gli rispondo di sì. La cosa mi aveva sorpreso e confortato. Aggiunge che è un modo di fare tradizionale giapponese. Un modo per dire: “Welcome in the company”. Sorrido, annuisco con la testa.
Pausa di qualche secondo.
“Ma è anche un modo per dire devi lavorare sodo, fin da subito”, conclude.
Esile la linea che separa l’accoglienza dall’assunzione di responsabilità.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)