Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
13 gennaio 2010, 16:50
Propositi per l’anno nuovo
Davvero tutto è tornato nella normalità. La pioggia fuori, il tg di sottofondo, il giapponese alla mia destra, e, soprattutto, il senso di oppressione.
Oggi a pranzo è voluto andare fuori, di nuovo tutti insieme appassionatamente. Ha detto: “It’s like a celebration for the new year”. Ma le facce erano tutt’altro che da celebrazione. Anche perché, appena seduti, ha esordito con questa frase: “So, which is your pledge for the new year?”, speravo che arrivasse il cameriere in quel momento e mi rovesciasse un litro di salsa di soia addosso o un asteroide mi cadesse in grembo o un qualche deus ex-machina mi salvasse, e invece niente, la prima a dover rispondere alla sua stereotipata domanda sui propositi per il nuovo anno ero proprio io.
Prima l’ho presa larga: “More or less the same of 2009”, quando poi A. l’ha presa ancora più larga (tacendo) e lui ha sospirato dicendo: “I work with two big boh”, stavo per dirgli: “Ma che te credi che vengo a dire a te quello che voglio fare? Proprio a te…”. Stavo già per partire quando la mia lingua ha scartato e ha risposto più diplomaticamente: “It’s a matter of scaramanzia: if you have a desire, you are not supposed to reveal it, otherwise it won’t get real”. L’ho forse preso in contropiede perché la sua risposta è stata senza senso: “Il vostro premier fa continuamente promesse e le dice a voce alta”. “Appunto”, ho solo dovuto aggiungere.
13 gennaio 2010, 16:51
Attenti a quel mochi!
Ieri invece a pranzo eravamo io e lui. Tra momenti di imbarazzante silenzio e racconti sentiti mille volte (possibile che ancora una volta debba sentire la storia di lui che, undicenne, si ritrova catapultato dall’America al Giappone e il trauma conseguente? Non si rende conto che me lo ha detto milioni di volte? E, soprattutto, ed è la cosa che più mi colpisce, il suo tono non cambia mai: ogni volta parla come se io fossi un nuovo interlocutore, come se non fossero tre anni che mangiamo insieme e ci vediamo quasi tutti i giorni. Sospetto lo faccia per se stesso, una specie di auto-rappresentazione a suo uso e consumo).
A un certo punto ci viene portato un piattino con due mochi: sono dei piccoli panetti di riso pressato avvolti da alghe.
Mi dice che sono tradizionali del Capodanno e che devo provarne uno. Le mie papille gustative sperano che siano come i dolcetti di riso. Si mangiano con le mani. Inizio a togliere l’alga ma lui mi ferma: no, quella va mangiata. Mi insospettisco ma ormai non posso tirarmi indietro. Il sapore non mi piace affatto: colloso e salato, come di riso ripassato nel pesce.
Cerco di finirlo senza forze di stomaco. Ma lascio l’ultimo pezzo, che è quasi tutta alga. Lui lo indica e mi sembra che voglia stigmatizzare il mio gesto, invece sta iniziando un racconto (una volta tanto nuovo): “Quand’ero piccolo ho avuto un trauma per colpa dei mochi. Eravamo a pranzo con la mia famiglia e mia nonna aveva addentato un mochi, ma quando ha tirato indietro la mano c’era tutta la sua arcata dentaria superiore attaccata al mochi mozzicato!”.
Poi mi dice che in realtà capita spesso che gli anziani muoiano soffocati mangiando il mochi. “Quindi”, ribatto io, “a Capodanno, anziché il bilancio di morti per i fuochi d’artificio fate la conta dei morti per mochi”. Ovviamente non capisce che è una battuta e mi risponde serio: “No, abbiamo anche noi i fuochi d’artificio”(Sì, buongiorno!), “ma questa cosa dei mochi è seria, davvero c’è gente che ci muore soprattutto anziani e bambini. Però ci sono anche dei contest in cui i partecipanti mangiano i mochi che, prima di essere tagliati, formano un pezzo unico, una specie di palla di riso che viene attorcigliata e inserita in gola”. E per un po’ mi fornisce dettagli in proposito, dicendo che si forma un cordone unico dallo stomaco alla gola (orrore), e che anche quello può essere pericoloso.
In conclusione, aggiunge: “No matter what, but if you see somebody choking because of a mochi, there is only one way to save him: vacuum cleaner!”. L’aspirapolvere! Perchè, dice sempre lui, i vecchi non riescono a tossire forte e non ce la fanno a espellerlo da soli. Mentre lo guardo, me lo immagino anziano con un mochi in gola e un aspirapolvere pressato sulla bocca…
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)