Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
22 febbraio 2010, 18:06
Lasciar correre
Poi arrivano questi momenti, queste giornate, queste situazioni in cui mi trovo obbligata a rimettere tutto in discussione.
Mettere in discussione è forse troppo: in realtà so benissimo che posto trovano le cose. È un tavolo apparecchiato, e non posso fingere che il coltello stia dentro al bicchiere invece che alla destra del piatto. Lo so benissimo dunque che gli sono anche affezionata, ma spesso è più facile ironizzare, è più salutare sfogarsi, è più immediato esorcizzare la quotidianità.
Veniamo al dunque.
L’altra sera mi ha invitato a cena: non era certo un appuntamento galante, c’era anche il mio compagno (con il quale ci eravamo già ripromessi: “facciamolo ubriacare”, così si tranquillizza un po’. Ma non c’era bisogno di convincerlo, la sua mano si avvicinava al bicchiere come attratta da magnetismo). La cena era più che altro un’occasione per provare la famosa carne di Kobe.
Sul saké ci stavamo perdendo noi, lui invece era bello arzillo. Ma è bastato passare alla grappa italiana per modificare il risultato.
Con mia enorme sorpresa, ha parlato italiano quasi tutto il tempo (ha smesso solo quando il grado alcolico si è innalzato ulteriormente).
Rammollito dall’alcol, si è messo a parlare senza troppi infingimenti, in modo più personale, lasciando da parte la corazza usuale che è cordiale, anche amichevole volendo, ma che resta sul superficiale.
Così si è messo a parlare di me e della mia trasformazione in questi tre anni. “Di nuovo!”, ho subito pensato, ma la grappa lo aveva reso talmente tenero che quasi quasi mi commuovevo. Il ritornello era lo stesso, sì: come sono cambiata in questi tre anni, come sono diventata una giornalista, come ho cambiato atteggiamento e modo di parlare. Fa anche un esempio: qualche giorno fa, mi ha fatto scegliere una selezione di foto da accludere all’articolo da mandare a Tokyo. Lui non era convinto della mia scelta, ma le ha mandate comunque. E, colpo di scena, hanno messo proprio le foto da me scelte! La vicenda non è così sorprendente, è stata anche un gran colpo di fortuna per me (non oso pensare se da Tokyo gli avessero detto: “ma che accidenti di foto ci hai mandato?”, forse sarei stata licenziata in tronco).
Mi pare illuminante che ora chieda il mio parere, mentre qualche tempo fa non era proprio previsto (né che io lo possedessi, né che potesse essere di qualche valore). Ma tant’è. Fa tutto parte di un processo di “acquisizione di autorevolezza”. Infatti ora mi dice che ormai si fida di me… non al 100%, ma al 95% (aggiungendo che di se stesso si fida solo al 60%). Mi dice molte cose carine, anche impegnative, ma affettuose, tipo: “I’m so proud of her, now she acts and she speaks really as a journalist…”.
Il discorso su di me e la mia evoluzione va di pari passo con le sue riflessioni sull’Italia. E se lui mi dice che io sono cambiata, io gli rispondo: “Beh, anche tu sei cambiato in questi tre anni in Italia”.
Lui conferma e ci spiega che in effetti ha imparato delle cose dall’Italia, da me e da tutti gli italiani con cui ha avuto a che fare. Ci racconta che vuole scrivere un libro su questo. Mi fa un esempio significativo e quasi quasi sono io ora a sentirmi orgogliosa di lui: “Voglio far capire ai giapponesi che se uno ha un appuntamento alle 9.00 e ci si vede alle 9.05 non succede nulla, non cade il mondo per questo”. Quasi mi alzo dal mio posto per abbracciarlo (ma è troppo assurdo essere platealmente fieri di qualcuno perché infine apprezza un po’ di sano lassismo latino…).
Gli domando come vorrebbe strutturarlo questo libro e mi dà una risposta che mi piace molto. La prima immagine con cui vorrebbe descrivere l’Italia è quella delle scale mobili. Sono tre anni che ci pensa su. La prima volta che ha preso una scala mobile in Italia si è accorto che il corrimano e le scale non andavano in sincronia. Inevitabilmente la mano appoggiata viene lanciata avanti al corpo e si è obbligati a prendere e lasciare il corrimano – a meno che uno non voglia tuffarsi a testa in avanti sugli scalini.
La prima volta si è irritato, ha pensato che c’era qualcosa che non andava. Ha continuato a irritarsi a lungo, tanto più che vedeva continui lavori nella metro ma il problema non veniva mai risolto. Poi ha cominciato a interrogarsi: cosa farebbe un giapponese in Giappone di fronte a una cosa simile? Protesterebbe, la questione diventerebbe uno scandalo, il problema verrebbe presto risolto. Ma qui il problema è dappertutto e nessuno protesta. In fondo, ha realizzato, basta fare come gli italiani: prendere il corrimano e poi lasciarlo. Non è difficile.
Gli ci sono voluti tre anni per accettarlo. Ma ha capito che questa è una perfetta metafora dell’Italia, del lasciar correre a volte – cosa che i giapponesi non fanno mai – magari poi ci si può concentrare su altro, su cose che meritano invece un esame più serio.
Io sono perfettamente d’accordo – con l’unica aggiunta che gli italiani, invece, dovrebbero imparare a lasciar correre di meno. Noi lasciamo correre tutto – dal corrimano in su. Presa dal momento di reciproca apertura, gli dico anche che, come lui ha imparato da me, io ho imparato da lui. Su questo si schermisce: ci tiene a fare distinzioni. A dividere quello che mi ha insegnato come giornalista e quello che mi può aver passato come giapponese. Gli è difficile però vedersi nel ruolo di giapponese perché non ci si sente fino in fondo, o comunque si sente un giapponese atipico. Proprio per questo, gli dico, forse riesci a far passare di più certi discorsi o certi atteggiamenti.
Mi fa sorridere. In fondo abbiamo compiuto le stesse azioni: prendere nota delle reciproche distanze, riderci sopra, incazzarci, arrivando pure a non sopportarci. Ci siamo scontrati con le nostre idiosincrasie alla ricerca di una comune strada, dotata di senso per entrambi, in cui poter trovare spazio entrambi. In certi momenti ci guardiamo in cagnesco da un marciapiede all’altro, in certi altro camminiamo in equilibri sulla linea di mezzeria. Non sempre è facile, ma si può fare.
Certo è però che non apprezzerebbe molti dei miei sfoghi di queste pagine. Ma io l’ho detto subito che sarei scaduta nella triste e banale dinamica capo-dipendente!
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)