Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
30 novembre 2009, 17:31
La giornata delle insolite richieste (non l’unica)
Oggi peggio del solito. Momenti di scoramento e di sconfinamento dal plausibile.
Ecco l’elenco delle assurdità:
1: siamo alla disperata ricerca (o meglio: lui è disperato perché – dice – questa potrebbe essere l’esclusiva di fine anno – sempre così quando si arriva a dicembre, io lo so ma non me ne capacito ), dicevo: siamo alla disperata ricerca di un paravento giapponese che pare sia stato donato al Papa nel 1585 e che dovrebbe/potrebbe essere ancora in Italia.
Fin qui ci posso stare.
Una delle piste, oltre agli archivi del Vaticano, è il palazzo dell’Ambasciata Americana.
Oddio, già sembra una flebile traccia narrativa alla Dan Brown.
Il palazzo dell’Ambasciata era di proprietà dei Principi Boncompagni Ludovisi, poi passato ai Savoia. Lui spera che ci sia un catalogo delle opere lì raccolte. Allora devo chiamare l’ufficio stampa e spiegarle tutta la vicenda del paravento, dello shogun e del regalo al Papa.
2: questo invece è argomento extra-lavorativo, anche se frana su di me e sulle mie ore di lavoro. Riguarda la sua ossessione per lo studio della lingua italiana. Ritornerò sul tema. Per ora basti dire che mi perseguita con domande sugli endecasillabi, sulla terminologia tecnica (“what does it mean diacronico?”, mi ha chiesto un giorno in ascensore. Volevo schiacciare il bottone dello stop e lanciarmi nella tromba dell’ascensore), sulla gorgia toscana (?!?), sui proverbi: e tutto questo accade in inglese. Perché evita di parlare italiano, non ci riesce, se non per brevi frasi.
Oggi mi domanda: “Come imparate voi il corsivo?”. Lo guardo perplessa, mi chiedo in quali nuove e non battute strade lo stiano conducendo le sue fissazioni. Così mi lancio in un’ emozionante ricerca su Internet sul corsivo, per trovargli quelle tabelle in cui si illustrano le varie lettere. Lui mi spiega che ha “bisogno di una base di riferimento”, perché non riesce davvero a leggere le grafie degli italiani e vuole capire come impariamo a usare la penna.
Non è che sia sbagliato. Non dico questo. È che mi pare troppo.
Lui conferma le mie mogie riflessioni: “è che voglio imparare bene, voglio davvero stupire tutti voi e dimostrarvi cosa significa imparare sul serio una lingua straniera”.
Allora perché dopo 3 anni non mi parli solo in italiano, eh?
3: dobbiamo fare un altro articolo per la serie sulle case. In cosa consiste? Nel visitare la casa di una famiglia italiana, scrutarla in ogni dettaglio, fotografarla, e ricoprire di domande i proprietari (cose tipo: “perché avete scelto questo quadro? È antico? Chi l’ha dipinto? È un amico di famiglia? L’avete scelto perché richiamava il colore del divano?” – e non sto scherzando!). Lui ha deciso per Venezia, stavolta. Io ho trovato degli amici che sono disponibili. Ma non so quanto a lungo sopporteranno le mie domande pre-intervista: “Come facciamo con l’acqua alta? Partono i battelli da piazzale Roma? Dove compriamo gli stivali? Ci sarà l’acqua alta tra una settimana?” E, ancora: “Quanto ci vuole esattamente da Piazzale Roma a casa vostra?” E poi: “la vostra barca si può vedere? Mi potete mandare una foto di casa?” E altro, altro ancora. Una specie di flusso di coscienza fatto solo di punti interrogativi. Vorrei rifugiarmi dietro a un bel punto fermo.
30 novembre 2009, 18:24
Appendice
Sempre perché è fissato con l’apprendimento dell’italiano, si è comprato un libro di canzoni italiane con cd e testi. L’altro giorno lo ha passato cantando, di tanto in tanto, “Per fare un albero ci vuole un fiore…”. Oggi era la volta di Battisti. Si è reso conto anche lui dell’assurdità e ha cominciato, una volta tanto in italiano, a canticchiare cose tipo: “Vado al bagno e penso a te”, “Bevo una birra e penso a te”, “Sono in metro e penso a te”. E via così a scandire un altro anomalo lunedì.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)