Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
12 marzo 2010, 15:22
Il valzer degli addii
Mancano quasi tre mesi alla sua partenza, ma ci pensa e ne parla ogni giorno. Per esorcizzare la dipartita e anche per tenerla sempre bene a mente, immagino.
Siamo a pranzo io e lui e oggi il discorso scivola sul versante intimistico – per fortuna visto che il 95% del mio cervello è in stato di coma vegetativo. Chiacchieriamo un po’ della relazione di coppia in Giappone, mi racconta qualche aneddoto dei suoi sulle donne 45enni da cui è terrorizzato, poi passa a parlarmi della famiglia, dei conflitti tra parenti. Cose così.
Poi finiamo di nuovo a parlare del prossimo corrispondente. Continua l’operazione di demolizione. Lo descrive come uno fuori contesto, uno che si mette giacca e cravatta per andare al bagno. Vedo che si sforza anche di tranquillizzarmi, anche se non sa dirmi bene quanto possiamo trovarci, io e questo nuovo tizio. Gli rispondo che comunque la mia idea sarebbe quella di andarmene a un certo punto, che sono anche stufa di essere l’assistente di qualcun altro. C’è un messaggio tra le righe, chissà se lo coglie.
Poi gli spiego che ciò che mi turba di più è la comunicazione. So che il mio inglese non è perfetto e temo che col nuovo arrivato non ci capiremo mai (già con lui non è stato e non è sempre semplice…). Lui se ne esce con un’autoincensazione già conosciuta, ma credo parzialmente vera: “I’m the exception”.
“I know, I know”, rispondo e, visto che siamo prossimi alla separazione, posso azzardarmi a ricordare a voce alta il nostro primo incontro, per il primo colloquio di lavoro: “You are not the kind of Japanese boss I was expecting anyway”.
E aggiungo che quel giorno, mentre arrivavo al civico dell’ufficio, intravidi un ometto asiatico, forse nemmeno giapponese, magari cinese, comunque questo ometto era buffo, aveva gli occhi piccoli un po’ ebeti, era rigido nella sua giacca e cravatta di pessima fattura e io pensai: “Oddio, e questo dovrebbe essere il mio capo?”.
Mi è andata decisamente meglio (anche se certo sul gilet da pescatore con cui poi lui mi si presentò potrei avere qualcosa da ridire…)!
12 marzo 2010, 16:45
Memories
Lo sapevo.
Lo vedo che si aggira rumorosamente per l’ufficio scattando foto. Va da una stanza all’altra, si affaccia alle finestre, con il vetro aperto, il vetro chiuso, poi si mette alla sua scrivania e continua a scattare. Spero interiormente stia provando la macchina fotografica. Ma poi mi si mette davanti e mi vuole immortalare: “This is for my personal memory”. Io mi irrigidisco e divento fucsia, lui prova la tecnica della distrazione – quella in cui mi sono specializzata – ma con me non attacca (deve abbandonare e rimandare a un altro giorno).
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)