Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
25 giugno 2010, 17:12
Dissonanze cognitive
I giapponesi mi faranno uscire fuori di testa. È stata una settimana infernale, ogni giorno ce n’è stata una, ogni giorno mi ha pressato di richieste, ogni giorno sono stata sul punto di mandare tutto affanculo anche se non ho un’alternativa.
Ieri la mia amica-collega stava per passare alle mani anche lei perché lui è contraddittorio e pedante.
Io poco ci manca.
Poi chiede cose assurde – non dovrebbero sembrarmi così assurde perché siamo sulla stessa scia delle richieste dell’altro, anche se questo (e ho difficoltà a capire come sia possibile) è ancora più puntiglioso e psicopatico quando si tratta di andare nel dettaglio. Deve fare un pezzo sull’Iva perché in Giappone l’hanno aumentata dal 5 al 10% e vuole fare un parallelismo che non esiste con l’Italia. Gli spiego che non c’è niente da dire, perché è una discussione che non esiste. Eppure insiste e mi fa chiamare per chiedere: “Perché il governo non ha alzato l’Iva?”. Cerco di mettere la domanda in modo da farla apparire sensata, ma dall’altra parte del telefono c’è perplessità. E ci credo!
Poi mi fa fare un’intervista a un segretario confederale della Cgil, per lo sciopero di oggi. La faccio, ma poi quando stamattina ci troviamo lì, mi dice: “Cerchiamo gli organizzatori”. “Ancora?”, dico io. “abbiamo già il segretario…”. Ma lui è inamovibile. Così mi ritrovo nel fantastico ruolo di interprete e intervistatrice a chiedere cose a due Rsu che ne sanno meno di me. Giuro: ne so più io della loro manifestazione, di dove la fanno e perché, che loro.
Insomma, un disastro.
Una settimana di antipatia trattenuta a stento.
Una settimana che mi viene solo da piangere.
Quindi oggi mi parla.
Dopo pranzo, torna in ufficio e mi chiede: “Are you busy now?”. Replico con fare stizzito che sto facendo una cosa per lui e lui dice: “Falla dopo. Ora parliamo”. Mi invita persino a sedermi per discutere. Mi avvicino e lui inizia: “Ho sentito che non sei contenta della gestione dell’ufficio”, e io scuoto prontamente la testa ma non lo interrompo.
Mi fa tutto un discorsetto sull’armonia e la concordia che dovrebbero regnare in ufficio, sul fatto che lui non vuole rovinare la vita di nessuno, che talvolta mi mette pressione ma che non può farci niente perché lo stressano da Tokyo e che, per lavorare insieme, dobbiamo trovare un modo positivo, cosicché ci sia un “good environment”.
Ovviamente quando gli chiedo io cosa non gli è andato bene, dice che tutto è stato perfetto. Quando gli chiedo io se si è sentito a disagio, mi risponde no risolutamente. Mi verrebbe da dire: e allora che cazzo vuoi? Invece faccio anche io la mia parte, buttando lì qualche verità e fingendo una comprensione totale per il suo stress.
Intendiamoci: lo capisco davvero il suo stress. Vedendolo applicato su di me da lui, capisco come possa essere esponenzialmente maggiore quello applicato su di lui da Tokyo. Il punto è che ci sono cose talmente sostanziali e culturali che mai ci potremo dire, anche se mi azzardo ad affermare: “Apprezzo la tua onestà e mi fa piacere questo discorso, anche perché con voi giapponesi, non si sa mai cosa pensate”. Cerco di spiegargli che deve essere un po’ più comunicativo se vuole la mia collaborazione e mi sorprende con improvvisi scatti di autocoscienza, come quando ammette: “Lo so che a volte ti chiedo delle cose che sembrano ridicole…” o con affermazioni tipo: “Non sono il tipo che ordina una cosa e vuole quella, punto, mi piace fare le cose in team”, e non era propriamente la mia impressione.
Insomma va avanti così per un bel pezzo, mentre sudo seduta sulla poltrona di pelle (questa sembra davvero fantozziana). L’impressione che ne ricavo è di uno sprazzo di verità reciproca diluito in una situazione che più di tanto non può evolvere positivamente: in primis perché io non ne posso più di questo lavoro. In secondo luogo, perché quell’”armonia” di cui lui parla mi spaventa, mi sa di collettivismo alla giapponese, di pragmatica ricerca del miglior sistema per far funzionare le cose. Io, però, resto italiana. Per quanto a volte la cosa mi disgusti.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)