«La situazione non sta andando in una buona direzione e il conflitto tende a degenerare in maggiore violenza. Se non lo affrontiamo potrebbe causare danni al Paese e all’amata istituzione, nonché alla pace e alla sicurezza delle persone e delle proprietà…È necessario che il governo e le agenzie di sicurezza intensifichino le loro azioni utilizzando tutti gli articoli di legge per agire contro i manifestanti che la infrangono e non mostrano alcun rispetto per i diritti altrui».
Per il generale Prayut, il premier tailandese di cui dal febbraio scorso la piazza chiede le dimissioni, la misura è colma. Dopo un’ennesima manifestazione martedì – con grandi numeri e contro cui la polizia ha agito con violenza – il movimento che anima la protesta aveva poi mercoledì preso di mira la sede della Reale Polizia, riempiendola di scritte multicolori. Gli agenti non hanno reagito ma in compenso lo ha fatto ieri il premier.
Agitando il brando della legalità e della sicurezza, temi cari alla destra e ai militari tailandesi, l’ex generale golpista ora in doppiopetto ha rivelato la vera faccia del suo governo: a suo dire l’esecutivo avrebbe cercato di trovare un compromesso con «procedure legali».
Ma per il premier, evidentemente, gli studenti che ormai rappresentano un vasto movimento non più solo giovanile e studentesco (anche qualche monaco si è visto nei cortei), sono colpevoli del contrario: aver voluto utilizzare procedure illegali e violente, sebbene i fatti contraddicano questa tesi. Le manifestazioni sono state pacifiche e le richieste del movimento (dimissioni del premier, riforma della Costituzione e limitazione del potere della corona) semplicemente lette in piazza, spedite per posta e persino consegnate direttamente alla polizia.
Ora Prayut agita la legge. Anzi, tutti gli articoli di tutte le leggi del regno compreso forse l’articolo 112 che regola i reati di lesa maestà puniti con misure medievali e che il re stesso avrebbe detto a Prayut di non utilizzare. Il movimento intanto, da semplice mobilitazione di studenti, si è esteso a più ampie fette di popolazione, in maggioranza giovani, e in molte altre città del Paese. Le richieste sono chiare e il governo avrebbe benissimo potuto negoziare cosa che, in realtà, non ha fatto, demandando al dibattito parlamentare, con tempi lunghi e burocratici, la discussione su una possibile riforma, senza per altro invitare nessuno dei leader della protesta, più volte arrestati anche se poi sempre rilasciati.
Negli ultimi tempi, col crescere del numero dei manifestanti a Bangkok e col crescere di un’immagine del Paese sempre più negativa, sono cresciute anche le maniere forti: manganellate, arresti, lacrimogeni, getti d’acqua e protezione alle squadracce lealiste in camicia gialla.
Forti ma tutto sommato relativamente blande mentre ora potrebbe esserci una svolta fortemente autoritaria che sin qui è stata evitata forse anche – ma non ci sono prove – per intervento del monarca stesso, un uomo che, non meno di suo padre, ha comunque un forte legame con l’esercito. Il prossimo appuntamento della piazza è per martedì. Sarà quello il primo vero test sempre che ai manifestanti sia concesso sfilare.
Di Emanuele Giordana
[Pubblicato su il manifesto]