Thailandia – Dietro la censura di Shakespeare

In by Simone

La censura di Shakespeare must die, rivisitazione del Macbeth della regista indipendente Ing K, ha fatto scandalizzare la stampa internazionale. Ma dietro lo stop del Ministero della Cultura potrebbe esserci una strategia di marketing, mentre Shakespeare – quello vero – in Thailandia è bandito da tempo.
Gli articoli cinici e indignati sono fin troppo facili quando un governo arriva a censurare un remake di Shakespeare.
E difatti la stampa – thailandese ed estera – si è subito impettita, con una copertura della notizia che è a dir poco sorprendente.

Non perché il fatto in sé non sia grave, quanto perché la censura in Thailandia non è una novità – non dovrebbe più fare, in pratica, notizia – e resta dunque da domandarsi se l’unica ragione di tanto interesse mediatico non sia soltanto che questa volta a ritrovarsi accidentalmente invischiato nei meccanismi del regno sia un mostro sacro della letteratura occidentale.

Il fatto: Shakespeare deve morire, adattamento cinematografico del Macbeth della regista “indipendente” thailandese Ing K, è stato censurato dalla Thai Film Censorship Board, un organo del Ministero della Cultura, perché i suoi contenuti sono ritenuti una minaccia all’unità nazionale.

La notizia, come suggerito sopra, si commenta davvero da sola, tanto più che l’ordine di censura è emesso da un governo che deve la sua vittoria elettorale a un movimento – quello delle camicie rosse – che si definisce antidittatoriale e ultrademocratico.
Ma c’è dell’altro.

Il Macbeth, vale la pena ricordare, narra la vicenda di un uomo assetato di potere che arriva a commettere regicidio pur di mantenere il suo prestigio, e l’allegoria nei confronti della presunta minaccia alla monarchia costituita dal magnate ed ex premier Thaksin Shinawatra, il cui governo fu rovesciato dal golpe del 2006, è ovvia.

Specie per una società cui, dal colpo di stato in poi, si è cercato di inculcare in tutti modi l’idea che Thaksin sia una specie di incarnazione del demonio, al punto che l’ex premier, tutt’oggi fuggitivo, è diventato in il capro espiatorio per qualsiasi sventura nazionale.

Persino i disastri naturali sono, in un modo o nell’altro, attribuiti alle sue influenze malefiche: la causa delle alluvioni dell’anno scorso, per esempio, sono spesso individuate nel karma negativo thaksiniano di cui si sarebbe impregnata la nazione, probabilmente perché colpevole di averlo eletto e rieletto.

La vera domanda, quindi, sembra essere: perché una regista come Ing K, con un passato da pecora nera del cinema thailandese fatto di continue provocazioni e accanite critiche sociali, si riduca alla farsesca demonizzazione dell’ex premier bersagliandolo con le stesse critiche dalla dubbia rilevanza politica espresse dai suoi rivali politici?

Tanto più quando ci sarebbe una miriade di altre ragioni più che valide per criticare Thaksin, che durante la sua premiership contribuì con una buona dose di violazioni dei diritti umani al record del Paese. La sua grossolana “guerra alla droga” del 2003, per menzionarne una sola, che si lasciò alle spalle 2.500 morti per mano delle autorità dei quali almeno 1.400 di dubbia rilevanza giuridica, oggi rimane applauditissima in Thailandia facendone il bersaglio perfetto delle critiche di un artista.

Gli attacchi di Ing K. alle camicie rosse, inoltre, delle cui proteste del 2010 finite con la morte di quasi cento persone sotto il fuoco dell’esercito ha riportato alcuni filmati nella pellicola, apparentemente per discreditarle, sembrano una copia carbone delle più questionabili reazioni della borghesia bangkokiana alle proteste.

Ing K. descrive infatti i disagi creati dalle manifestazioni rosse alle riprese del film, costrette a più interruzioni, allo stesso modo con cui la classe media bangkokiana, insofferente alla causa politica e sociale delle camicie rosse, lamentava gli effetti avversi delle manifestazioni sul traffico e l’impossibilità di fare shopping nell’adiacente centro commerciale.

Sembra strano che il ministro alla Cultura censuri Shakespeare nella forma di un film che lui stesso ha finanziato” lamenta quindi il produttore del film, Manit Sriwanichpoom, visual artist di grande fama in Thailandia, riferendosi al fatto che parte dei finanziamenti per il film hanno proprio origine dai fondi ministeriali.

Ma anche le sue parole corrono il rischio di diventare controproducenti, visto che i finanziamenti ministeriali alla pellicola risalgono al governo Abhisit, salito rocambolescamente al potere dopo il colpo di stato del 2006 e in barba al risultato delle elezioni del 2007, nonché responsabile del sanguinoso intervento militare sulle proteste.

I suoi recenti appelli contro la censura sono quindi ancora più questionabili se si pensa che è stato lo stesso governo Abhisit a iniziare questo circolo vizioso di controllo sulla libertà d’espressione, creando un nuovo standard di ammissibilità censoria di cui la presente amministrazione è ben felice di tagliarsi la sua fetta.

Il governo Abhisit, portando avanti una censura a tappeto che andava mano nella mano con un uso spropositato della legge di lesa maestà, era arrivato a far scivolare la Thailandia al 153esimo posto nella classifica per la libertà di stampa di Reporters Senza Frontiere dal 107esimo dell’anno precedente al golpe.

D’altra parte, in una recente intervista al Bangkok Post, la regista Ing K. risponde affermativamente alla domanda se pensa che la legge di lesa maestà andrebbe abrogata, ma solo perché “il problema è che viene usata come uno strumento in particolar modo per danneggiare il Re e fare apparire Thaksin come un campione della democrazia”.
 
Tutto questo non può che portare a interrogarsi sul ruolo degli artisti in Thailandia, silenziosi quando conviene e viceversa provocatori quando la provocazione è facile, mentre qualcuno suggerisce addirittura che la notorietà del caso “Shakespeare deve morire“, che ha già portato le prime proteste contro la censura del film nelle strade di Bangkok e rinnovato lo status di Ing K. di “regista del momento” – come la definisce il critico cinematografico Kong Rithdee – sia stata orchestrata ad arte fin dal principio.

Tanto più che la trama della pellicola gravita attorno alla storia del dittatore di un immaginario paese asiatico che cerca di impedire a tutti i costi la rappresentazione teatrale del Macbeth.

A dirla tutta, poi, Shakespeare in Thailandia è già stato censurato più volte senza che nessuno abbia mai detto niente. E neanche una rivisitazione moderna di Shakespeare: quello vero.

Su Prachathai, un sito censurato dal governo Abhisit che rimane tutt’oggi inaccessibile in Thailandia, un insegnante di letteratura inglese racconta che “noi ci siamo dovuti sbarazzare di Shakespeare da tempo” su suggerimento del Ministero della Pubblica Istruzione per i suoi contenuti monarchici.

Shakesepeare, insomma, in Thailandia non deve morire: è già morto da un pezzo.
Il guaio è che nessuno sembra essersene accorto.

[Foto credit: bacadulu.com]

* Edoardo Siani vive in Thailandia dal 2002. Lavora come insegnante di inglese e di italiano e come interprete per la polizia locale. Sta raccontando gli anni trascorsi in uno slum di Bangkok in un libro.