Thailandia – Una jihad nel cuore del Sudest asiatico

In by Gabriele Battaglia

Il 5 aprile scorso, un attentato dinamitardo ha compromesso gli sforzi del governo di Bangkok per trovare una soluzione al conflitto che contrappone nel sud del paese, le forze governative e gruppi di insorti islamisti. Uno scontro violento che non risparmia nemmeno i civili. A Sud, nessuno è al sicuro.  Il 5 aprile, sulla strada 410 che nei pressi del distretto di Betong, nella provincia di Yala, Thailandia meridionale, un’esplosione a bordo strada ferma un’auto danneggiandola gravemente. A bordo il vice governatore provinciale, Isra Thongthawat, e Chevalit Chairuek, un altro funzionario locale. Chevalit muore sul colpo, Isra poco dopo in ospedale.

In Thailandia del sud, nessuno è al sicuro. Così titolava nell’agosto 2007 un rapporto dell’organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw). Oggi come allora, nel “lontano Sud” thailandese, come lo definisce Wassana Nanuam, editorialista del Bangkok Post, nessuno può dirsi al sicuro.

La morte di Isra, diventato la vittima più illustre della “jihad dimenticata” della Thailandia, è un passo indietro nel rapporto tra Bangkok e i ribelli musulmani, malgrado alcuni segnali positivi lanciati lo scorso 28 febbraio. In quella data il governo thailandese, anche grazie alla mediazione della Malaysia, era riuscito a strappare al più influente dei gruppi separatisti, il Barisan Revolusi Nasional (Brn), l’impegno a sedersi al tavolo delle trattative per trovare un accordo di pace.

Un passo indietro ma non un fallimento, sostengono le autorità di Bangkok. “Ci aspettavamo questo tipo di attacchi di protesta – ha spiegato a Reuters il generale Paradorn Pattanatabut, segretario generale del Consiglio nazionale di sicurezza, organo responsabile del coordinamento e del mantenimento della sicurezza nazionale – ma questo non indica un fallimento del dialogo con il Brn”. Appena una settimana prima dell’attentato, Paradorn aveva incontrato a Kuala Lumpur i vertici del Brn, chiedendo una riduzione della violenza. Le ultime voci dicono che ci sarà un secondo incontro, a fine mese o subito dopo le elezioni in Malaysia previste per il 5 maggio.

Le tre regioni di Pattani, Yala e Narathiwat, all’estremità meridionale della penisola che dal continente asiatico si estende arrivando al confine con la Malaysia, dove la maggioranza della popolazione è di etnia malay e di religione musulmana, sono diventate teatro di uno scontro ormai decennale tra gruppi separatisti islamici e forze governative. Una vera e propria guerra che, dal 2004, ricorda il giornalista thailandese Prashanth Parameswaran su The Diplomat, ha fatto oltre 5 mila morti.

Uno scontro in cui entrambe le parti sono al contempo vittime e carnefici.  Prima che un trattato firmato da Siam e Impero britannico nel 1909 riconoscesse a Bangkok la proprietà della regione, il Regno di Pattani era un sultanato tributario del Siam, ma formalmente indipendente. Con il passaggio di Pattani sotto il diretto controllo siamese, furono imposte politiche di centralizzazione amministrativa e di assimilazione culturale e religiosa, provocando una contrapposizione tra buddhismo thai, maggioritario in Thailandia, e Islam malay, maggioritario nel Sud del paese. Negli anni, poi, denuncia Hrw, si sono ripetuti “attacchi indiscriminati su civili”, che minano le stesse legittime rivendicazioni di autonomia dei militanti.

In questo contesto si trova il germe degli attuali “disordini del Sud” riemersi con l’inizio del nuovo millennio. Per quasi dieci anni, i governi che si sono succeduti a Bangkok hanno smentito voci su un riaccendersi del conflitto scegliendo di tenerlo a freno con la forza. Migliaia di soldati sono stati inviati per tenere la situazione sotto controllo: la regione è ora militarizzata e molti cittadini di etnia thai o cinese hanno iniziato a emigrare.

La rappresentanza politica dei musulmani malay, che costituiscono l’80 per cento della popolazione della Thailandia meridionale, sottolineava l’Economist nel maggio 2012, è nulla, dato che i governatori provinciali sono eletti nella capitale e non livello locale. Con il risultato che pochi politici si sono spesi per la soluzione del conflitto. A Bangkok, infatti, il Sud è percepito come estremo, troppo distante dalla capitale e, di conseguenza, i suoi problemi sono “irrisolvibili”.

Un primo segnale di distensione lo ha dato l’attuale primo ministro Yingluck Shinawatra, ad aprile dello scorso anno. In visita nella provincia di Pattani, Yingluck ha promesso nuovi investimenti e rinnovato impegno per la pace nella regione. Promesse che, finora, non sono bastate. “L’avvio di un dialogo di pace può essere una tregua dal solito bagno di sangue della regione – scriveva ancora Prashant sul Diplomat ma non bisogna farsi trascinare dall’entusiasmo sulle prospettive future”. Per un accordo duraturo “ci vorrà del tempo”, aveva ammesso lo stesso Paradorn poco meno di un mese fa.

Per fermare uno dei conflitti più sanguinosi dell’Estremo oriente, servono decisioni politiche coraggiose. Allentare la stretta militare sul territorio e garantire una misura di autonomia politica sono tutte strade percorribili, suggeriscono gli esperti. O nel “lontano Sud”, nessuno potrà mai più sentirsi al sicuro.

[Foto credits: theepochtimes.com]

*Marco Zappa nasce a Torino nel 1988. Fa il liceo sopra un mercato rionale, si laurea, attraversa la Pianura padana e approda a Venezia, con la scusa della specialistica. Qui scopre le polpette di Renato e che la risposta ad ogni quesito sta "de là". Va e viene dal Giappone, ritorna in Italia e si ri-laurea. Fa infine rotta verso Pechino dove viene accolto da China Files. In futuro, vorrebbe lanciarsi nel giornalismo grafico.