E’ uno dei tanti cuori della Cina, tra Xinjiang a nord ovest e Tibet a sud. Si tratta della provincia del Qinghai, una distesa grande due volte l’Italia, crocevia di etnie, una delle zone più naturali e povere del paese, con circa 5 milioni di abitanti. Area sensibile: nella provincia è nato l’attuale Dalai Lama e per molti tibetani le sue terre rappresentano ancora oggi l’antica provincia tibetana di Amdo. Terra di nomadi, tibetani, mongoli e naturalmente han, ma anche di tanti criminali comuni e politici mandati in quelle zone povere e dure in esilio. Madre dei principali fiumi della Cina, del più grande lago salato della Repubblica Popolare, ma anche discarica, pare, di rifiuti nucleari. Una provincia lontana dal fantasmagorico mondo luccicante di Shanghai e di Pechino, che il terremoto, per altro, lo aveva già visto appena due anni fa, quando a tremare era toccato al Sichuan, altro vicino di casa del Qinghai, a sud est. Allora erano stati 90 mila i morti, di cui 5 mila bambini.
Le notizie ufficiali circa la scossa – 7,1 della scala Richter secondo i tecnici cinesi – che ha svegliato nella mattina di ieri l’intera provincia, riportano 589 morti e oltre 10 mila feriti. Un numero che potrebbe aumentare vista la pochezza delle molte abitazioni, di legna e fango secondo molti soccorritori, e la difficoltà di raggiungere alcune zone colpite dal terremoto. Le prime emergenze: la mancanza di materiale medico, l’assenza di mezzi pesanti per affrontare le difficoltà naturali del luogo, la distruzione di molte strade e di linee di comunicazione per portare rifornimenti e primi soccorsi.
Terremoto e mattina, le 7 e 49 locali, hanno subito richiamato alla mente il disastro dei bambini morti in Sichuan, sul quale del resto le autorità hanno provato a tacere, reprimendo (ovvero arrestando e condannando) quel nugolo di attivisti che tentò di portare alla luce il numero esatto del vittime. Anche per questo le prime notizie che si sono propagate dai media ufficiali cinesi hanno dato la priorità alle operazioni di salvataggio nelle scuole, dove le lezioni stavano per cominciare. Un istituto di Yushu, l’epicentro del sisma, sarebbe stato completamente distrutto. Non si sa ancora quanti bambini siano sopravvissuti, mentre è ufficiale il salvataggio di 40 di loro rimasti sotterrati dal crollo di un altro edificio scolastico. Dove la scossa ha colpito duro, ha lasciato poco o niente. Secondo le autorità della prefettura di Yushu, 70 mila abitanti circa, l’85% delle strutture colpite dal terremoto sono crollate. L’epicentro sarebbe a circa 800 chilometri dalla capitale della regione, Xining, 250 mila abitanti, di cui il 97% è di origine tibetana. Ora – specie a Yushu – si tratta di salvare la gente, permettere un riparo e garantire la possibilità di non incorrere in epidemie e malattie.
Il governo di Pechino ha inviato nella sola giornata di ieri 5 mila soldati, medici e personale di soccorso, che andranno a sommarsi agli oltre 700 già presenti fin da subito nel processo di rimozione dei detriti e di soccorso alle vittime.
A comandare le operazioni il vice premier, Hui Liangyu, mentre dai vertici del paese sono arrivate due lettere che invitano ad affrontare la situazione, ma che indicano anche una cauta attesa, almeno fino a quando non si avranno dati certi su cui riflettere e agire. Hu Jintao del resto non è in Cina ed è probabile che toccherà ancora una volta a Wen Jiabao, premier cinese, gestire in prima persona l’emergenza, come già fece due anni fa. Anche allora la Cina si stava preparando ad un evento mondiale, le Olimpiadi. Il terremoto del Qinghai arriva due settimane prima l’apertura dell’expo di Shanghai: luci e skyline, contro rovine e macerie. E’ la Cina contemporanea, tartassata nelle sue pendici più deboli da eventi naturali, rapidi nel mettere a nudo l’arretratezza di alcune sue zone.
Due anni fa si mobilitò l’intero paese, una corsa agli aiuti e ai soccorsi: la giornata di ieri on line è stata un tentativo costante di avere informazioni, come se non bastassero quelle ufficiali, o come ci fosse poco da fidarsi. Diffidenza aumentata quando si è scoperto che Baidu, il popolare motore di ricerca cinese, non permetteva ricerche con la parola Qinghai, adducendo motivazioni di censura al riguardo. La sensibilità della zona, in cui le comunicazioni e la stessa rete sono già compromesse da tempo a causa del timore cinese di insurrezioni tanto in Tibet, quanto in Xinjiang, non ha facilitato un circuito di informazioni alternativo. Anche perché quando Baidu ha consentito le ricerche in cinese, ha però bloccato – salvo tornare sui proprio passi in giornata – la possibilità di postare commenti sui suoi forum. Qualcosa è emerso, tanto che perfino gli organi ufficiali hanno reso pubblici alcuni dati: dal 2001 a oggi sarebbero state oltre 50 le scosse sismiche nella regione.
[Pubblicato su Il Manifesto il 15 aprile 2010]