L’arcipelago polinesiano, che sta finendo sott’acqua, ha cambiato la costituzione per continuare a esistere anche senza una terra. Una sfida diretta a tutti i concetti di nazione
Un paese può continuare a esistere anche se non ha più un territorio fisico? La domanda riecheggia già nel cult dello sci-fi queer asiatica, Membrana. “Nonostante i raggi ultravioletti riducessero la superficie terrestre a una distesa sempre più inabitabile, i paesi continuavano a inviare truppe sui continenti nel timore che in un momento di distrazione qualcuno sottraesse loro una porzione di territorio”, scriveva nel 1996 il taiwanese Chi Ta-wei, immaginando un futuro in cui le nazioni si trasferiscono sotto gli oceani a causa di un disastro climatico in superficie. Mantenendo inalterato il concetto di territorio nonostante, nei fatti, non possono più abitarlo e i confini non hanno più un significato.
Circa 37 anni, la realtà è sulla buona strada per ricreare quel mondo distopico, seppur al contrario. Interi stati rischiano di scomparire in futuro a causa dell’innalzamento dei mari. Tra questi c’è Tuvalu, piccolo arcipelago polinesiano del Pacifico meridionale da 11 mila abitanti. A Tuvalu, il cambiamento climatico non è una minaccia futura: è già il presente. Entro un secolo, il suo territorio potrebbe essere completamente sott’acqua o inabitabile. “Rischiamo di sparire dalla superficie terrestre”, ha ammesso Kausea Natano, il primo ministro. Eppure, Tuvalu ha deciso che continuerà a esistere anche qualora restasse davvero senza una terra. Il governo di Natano ha modificato la costituzione per affermare che il paese esisterà “in perpetuo” anche se la sua massa terrestre non esisterà più. Uno degli emendamenti dichiara permanenti le zone marittime, lo stato e altri diritti di Tuvalu (tra cui le risorse naturali contenute nelle acque), indipendentemente dagli effetti che il cambiamento climatico può avere sul suo territorio terrestre. La nuova costituzione è entrata in vigore il 1° ottobre, il 45esimo anniversario dell’indipendenza dal Regno Unito. Ed è una sfida diretta a tutti i concetti di nazione attualmente codificati. Secondo il diritto internazionale, un paese deve avere un territorio fisico e una popolazione permanente. Richieste ormai sorpassate, secondo Tuvalu, che sostiene che il cambiamento climatico debba consentire una riformulazione del concetto di paese.
Non è finita. Il governo locale sta lavorando anche alla costruzione di una replica del paese nel metaverso, con l’obiettivo di preservare la sua conformazione fisica (seppur in modalità virtuale). “L’idea è di continuare a funzionare come Stato e di preservare la nostra cultura, la nostra conoscenza e la nostra storia in uno spazio digitale”, ha spiegato Simon Kofe, ministro della Giustizia, delle Comunicazioni e degli Esteri. “Isole come questa non sopravvivranno ai rapidi aumenti di temperatura, all’innalzamento del livello del mare e alla siccità. Quindi le ricreeremo virtualmente”, ha proseguito in un video girato in occasione della Cop 27. “Pezzo per pezzo preserveremo il nostro paese, daremo conforto alla nostra gente e ricorderemo ai nostri figli e ai nostri nipoti com’era la nostra casa un tempo”.
Il tempo a disposizione potrebbe non essere così tanto. “Qualsiasi cosa si decida non salverà Tuvalu. Qualsiasi opzione di adattamento attueremo, potrebbe non essere abbastanza veloce per proteggere la nostra terra dall’innalzamento dei mari”, sostiene il governo. Negli ultimi anni sono state osservate delle trasformazioni, a partire dall’inondazione di aree basse come l’aeroporto nazionale. Nel punto più alto, Tuvalu si trova a soli 4,6 metri sopra il livello dell’oceano. Si stima che un innalzamento del livello del mare di 20-40 centimetri potrebbe rendere il piccolo arcipelago inabitabile nel giro di massimo un secolo. Studi più pessimistici spostano molto più vicino l’epilogo, già al 2050. “Ma i nostri cittadini non vogliono andarsene, vogliono restare a casa, mantenere la propria identità e il proprio patrimonio culturale”, ha dichiarato Kofe. Vedersi riconosciuta la validità della nuova costituzione a livello globale non sarà semplice. Anche perché si tratta di una rivoluzione legale e concettuale, che presuppone l’esistenza di una nazione digitale o virtuale. Ma Tuvalu spera che altri paesi vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico seguiranno il suo esempio, forzando una revisione condivisa del diritto internazionale.
Diversi altri piccoli paesi insulari del Pacifico potrebbero pensare a mosse simili. Le Isole Marshall si sono unite proprio a Tuvalu per lanciare la Rising nations initiative, che si propone di colmare le attuali lacune in termini di consapevolezza, quadri giuridici e impegno politico sulla minaccia di sparizione degli arcipelaghi.
Nel Pacifico meridionale, la popolazione dipende dai settori primari per il proprio sostentamento, in particolare dall’agricoltura e dalla pesca. Diversi fenomeni legati al cambiamento climatico stanno avendo già ora un profondo impatto sui mezzi di sussistenza. A partire dalle mareggiate e dai sempre più frequenti e più intensi cicloni tropicali. “Rischiamo di finire completamente sott’acqua”, sostiene il governo di Vanuatu in tutti gli eventi diplomatici a cui partecipa. Ed è sempre più frequenti, nei vari forum e vertici multilaterali, ascoltare leader della regione criticare i paesi più sviluppati per la loro inazione. Spesso, mentre le grandi potenze parlano di strategia, sicurezza e geopolitica, i piccoli arcipelaghi provano ad aprire gli occhi sulle minacce più concrete e imminenti. Anche perché si sentono sfavoriti dalle regole. I paesi insulari del Pacifico inquinano molto poco: meno dell’1% delle emissioni globali come regione. Il fabbisogno di finanziamenti per il clima delle isole del Pacifico è stimato tra il 6,5 e il 9% del pil, pari a circa 1 miliardo di dollari all’anno. Peccato che i finanziamenti approvati siano fin qui di circa 220 milioni di dollari all’anno: il 20% del necessario.
Torna allora in mente il libro di Chi Ta-wei e quelle truppe inviate a protezione di territori sempre più inabitabili. Un mondo distopico, ma tristemente non così lontano da quello reale.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.