Una “cultura da lupi”. Con queste parole Ren Zhengfei, fondatore di Huawei, descriveva tempo fa la filosofia manageriale dell’azienda più ammirata e temuta al mondo, caratterizzata da “sensi acuti, indomabile aggressività e spirito di squadra”. Ora che uno dei “lupi” è caduto nella trappola tesa da Stati Uniti e Canada la flessibilità manageriale maturata negli anni dal colosso cinese potrebbe dimostrarsi una qualità salvifica davanti ai venti contrari che infuriano sul proscenio internazionale. D’altronde, la resilienza è una peculiarità che l’azienda di Shenzhen sfoggia fin dalle origini.
Huawei nasce nel 1987 con un investimento iniziale di appena 3.000 dollari, quando Ren, allora vicedirettore del genio militare – “vicecomandante del reggimento ma privo di rango militare” – lascia l’esercito più che quarantenne per lanciare il guanto della sfida ai grandi player occidentali di allora. Dapprima semplicemente assemblando componenti per centralini analogici destinati alle immense aree rurali in Cina, all’epoca ancora largamente prive di rete telefonica. E’ solo nel 1993, con la realizzazione del commutatore digitale avanzato C&C08, il più performante dell’epoca, che la compagnia si afferma sul mercato interno grazie a una strategia di personalizzazione dei servizi plasmabile sulle esigenze locali. La società di Ren comincia così a tessere rapporti collusivi con le autorità provinciali, fornendo “dividendi” ai funzionari in cambio dell’utilizzo dei prodotti Huawei nella rete locale. Un modus operandi “non ortodosso, confinante con la corruzione, ma non illegale”, spiega Nathaniel Ahrens in China’s Competitiveness: Myth, Reality, and Lessons for the United States and Japan: Case Study: Huawei.
Come si sa, oltre la Muraglia le guanxi (il network di agganci interpersonali) sono la vera chiave del successo. Non fa strano quindi che sempre in quegli anni Huawei si sia aggiudicata la costruzione della prima rete nazionale di telecomunicazioni per l’Esercito popolare di liberazione, un accordo ritenuto “piccolo in termini di attività generali, ma grande in termini di relazioni.” “La tecnologia delle apparecchiature di commutazione è legata alla sicurezza nazionale e una nazione che non ne dispone è come una nazione senza esercito,” sentenziò l’allora segretario generale del Partito Jiang Zemin durante un incontro con Ren.
Nel 1996, l’adozione di una politica esplicita di sostegno statale nei confronti dei produttori nazionali attraverso l’esclusione dei concorrenti stranieri conferì a Huawei il ruolo di campione nazionale. Una qualifica che in un primo momento non parve ostacolare la sua lunga marcia verso i mercati esteri. India, Olanda, Gran Bretagna, Australia e Svezia sono solo alcuni dei paesi in cui il colosso cinese ha seminato centri di ricerca durante i primi anni Duemila. Una corsa inarrestabile culminata nel luglio 2010 con un primo importante debutto nella lista Fortune Global 500 pubblicata dall’omonima rivista statunitense grazie a un fatturato annuo di 21,8 miliardi di dollari e un utile netto di 2,67 miliardi.
La maratona si ferma quando nel 2012 un rapporto del Congresso americano per la prima volta bolla Huawei come un rischio per la sicurezza nazionale. Da allora le mire della compagnia si sono spostate verso Europa, Giappone, Medio Oriente e Africa. “Ogni tanto è meglio cercare un posto sicuro dove aspettare la fine della tempesta,” scriveva Ren in un documento interno fatto circolare lo scorso gennaio. Oggi Huawei ha già superato Apple per numero di smartphone venduti e si appresta a scavalcare Samsung entro la fine di quest’anno con un obiettivo record di 102,2 miliardi di dollari di incassi, più di Boeing. Ma la sua strategia di internazionalizzazione non procede più tanto spedita e, sebbene il colosso cinese sia meno dipendente di ZTE dalla tecnologia statunitense, le preoccupazioni americane iniziano a trovare sostegno anche tra i vecchi paesi amici con il rischio reale di un effetto domino.
L’arresto della primogenita Meng Wanzhou non poteva arrivare in un momento peggiore. Ma la storica adattabilità di Huawei potrebbe dimostrarsi ancora una volta un utile salvagente. Come spiegano sull’Harvard Business Review David De Cremer, docente della University of Cambridge, e Tian Tao, direttore del Ruihua Innovative Management Research Institute presso la Zhejiang University, l’azienda di Shenzhen ha un sistema interno tutto particolare, caratterizzato dalla condivisione delle responsabilità e dei benefici attraverso la partecipazione azionaria dei dipendenti – che fino al 2014 vedeva Ren detenere una quota di appena l’1,4%. Non solo. Una turnazione semestrale prevede un’alternanza continua dei tre “alternate director” nell’esercizio del ruolo di CEO, mentre il fondatore mantiene la funzione di supervisore. “Questa innovativa struttura manageriale rende la compagnia meno vulnerabile se un capo sbaglia o deraglia.”
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.