Tra “giocare col fuoco” e opposizione a “sforzi unilaterali di cambiare lo status quo”, su Taiwan si ripropone lo stesso lessico di novembre 21. Nessuna menzione di Pelosi, preannunciato incontro di persona prima di fine anno. Sparisce anche il riferimento alla “competizione” nel readout Usa. Insomma, non sembra andata malissimo
Non si scherza col fuoco, no a mosse unilaterali per cambiare lo status quo. Il rumore di sottofondo è diverso, ma i ritornelli scelti da Xi Jinping e Joe Biden nel loro colloquio telefonico di ieri sono i soliti. Le parole utilizzate dai presidenti di Cina e Stati uniti, quantomeno su Taiwan, sono pressoché le stesse dello scorso novembre. E non c’è dubbio che Taiwan sia il dossier più elettrico nei rapporti tra Washington e Pechino, ancora di più dopo l’esplosione del caso Nancy Pelosi, ancora di più dopo l’esplosione del caso Nancy Pelosi, la speaker della Camera Usa che oggi parte per il suo viaggio in Asia senza ancora conferme sulla tappa taiwanese.
I DUE COMUNICATI emessi alla fine della telefonata, durata circa 2 ore e 20 minuti, sembrano quasi un copia e incolla di quelli di otto mesi fa. Come ormai è prassi, prima è uscito quello cinese, decisamente più lungo e dettagliato: «Xi Jinping ha sottolineato la posizione di principio della Cina sulla questione di Taiwan» e ha «sottolineato che entrambi i lati dello Stretto di Taiwan appartengono a un’unica Cina». Dopo la classica citazione dei tre comunicati congiunti sinoamericani arriva l’altrettanto classico avviso: «Ci opponiamo fermamente al separatismo e alle interferenze di forze esterne». E ancora: «La volontà di oltre 1,4 miliardi di cinesi è ferma sul salvaguardare risolutamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale». Come a novembre, Xi avverte: «Giocando con il fuoco si rischia di bruciarsi. Spero che la parte statunitense possa vederlo chiaramente». Allora Xi aveva aggiunto che la Cina è «paziente e disposta a fare del proprio meglio per lottare per una prospettiva di riunificazione pacifica» ma non aveva escluso l’utilizzo della forza: «Se gli indipendentisti oltrepassano il limite, ci vedremo costretti ad adottare misure decisive». Via carota e bastone, in questo caso resta solo il fuoco (potenziale).
MOLTO PIÙ STRINGATA la risposta americana: «Il presidente Biden ha sottolineato che la politica degli Stati uniti non è cambiata e che gli Usa si oppongono fermamente agli sforzi unilaterali per cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan». Il che significa, agli occhi cinesi, anche (e soprattutto) non sostenere l’indipendenza di Taipei come Repubblica di Taiwan.
NESSUNA CITAZIONE, come prevedibile, per Pelosi. Non è dato sapere se il mantenimento dello stesso tono rispetto a novembre scorso, nonostante le minacce di escalation e le manovre militari dei giorni scorsi, possa significare che tra i due ci possa essere stato una sorta di “assenso” sul modo in cui far fronte alla vicenda. Ma un accordo generale, come sempre, è fuori discussione. Oggi l’esercito cinese avvia due giorni di test navali, mentre ieri i militari taiwanesi hanno sparato un razzo per allontanare un drone in prossimità delle isole Matsu.
Promettenti invece due elementi: la scomparsa del termine “competizione” dal readout Usa e la previsione post colloquio di un incontro di persona (il primo da quando Biden è presidente) entro la fine dell’anno. Xi e Biden si sono scambiati anche opinioni sulla «crisi ucraina». La Casa bianca sta cercando da tempo la (difficile) collaborazione di Pechino per imporre un tetto al prezzo del petrolio. Più aspettative forse sul fronte commerciale, con Xi che ha invitato gli Usa a sostenere la stabilità delle catene di approvvigionamento globali. «Il disaccoppiamento» non contribuirà «a rilanciare l’economia statunitense», ha detto Xi, ammonendo che considerare la Cina come «il principale avversario strategico» è «un errore di valutazione» che «danneggerà le popolazioni dei due paesi e la pace». Entrambi hanno mostrato l’intenzione di voler continuare a «tenere aperti i canali di comunicazione», cooperare qualora possibile e gestire «responsabilmente le differenze di vedute».
Questo significa che su Taiwan non ci saranno più tensioni? Ovviamente no. Anzi, nei prossimi giorni è lecito aspettarsi un aumento delle incursioni aeree dell’esercito popolare di liberazione, a prescindere da Pelosi visto che arriva l’anniversario delle forze armate comuniste. Nelle scorse settimane non si è visto un aumento, segnale che Pechino si tiene questa carta come reazione alla possibile visita di Pelosi (il che, paradossalmente, è un bene viste le alternative).
Rispondendo anticipatamente alle consuete domande che si fanno in queste occasioni: su Taiwan non c’è e non ci sarà comunque un accordo di nessuno tipo. Ieri sostanzialmente Xi e Biden hanno ribadito di vedere nell’altro l’attentatore allo status quo. Al massimo si può trovarsi d’accordo di essere in disaccordo riportando però le tensioni su un sentiero meno irto di incognite.
Di Lorenzo Lamperti
[Versione aggiornata dell’articolo pubblicato su Il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.