Benché la presidente di Taiwan – del partito più sfacciatamente indipendentista, agli occhi dei cinesi – abbia cercato di mettere una pezza alla gaffe, sostenendo di aver chiamato lei Trump, per congratularsi per la sua elezione, la mossa del presidente Usa di twittare immediatamente la notizia, potrebbe indirizzare il parere cinese sul miliardario alla Casa bianca in una direzione ben precisa. Quando nel 1979 gli Stati uniti di fatto riconobbero l’esistenza di una sola Cina, spostando la propria ambasciata a Pechino, si sancì il cambiamento storico delle relazioni tra Stati uniti e Cina.
Si trattava di una scelta, effettuata dall’allora presidente Carter, che andava a seguire quella analoga già effettuata nel 1971 dalle Nazioni unite. Dopo quel gesto da parte di Washington – che Pechino ancora oggi considera «pietra angolare» delle relazioni tra i due paesi – ha iniziato quella traiettoria fatta di scambi commerciali, investimenti e relazioni diplomatiche che ha portato ai giorni nostri.
Per Pechino il riconoscimento di «una sola Cina» significava due cose: mantenere una sorta di possesso, politico, dell’isola ribelle taiwanese (dove si rifugiarono i nazionalisti dopo la vittoria di Mao nel 1949) venendo riconosciuto come interlocutore unico e recuperare un sentimento di fiducia reale rispetto all’Occidente, di cui il paese aveva sofferto il secolo dell’umiliazione, dalle guerre dell’oppio allo spolpamento del territorio grazie a una dinastia imperiale regnante in agonia, costretta a regalare ai «barbari» concessioni economiche e privilegi di ogni sorta.
La telefonata tra Trump e la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ha un effetto detonante su queste «scontate» considerazioni in corso da anni a Pechino.
Benché la presidente Tsai Ing-wen – del partito più sfacciatamente indipendentista, agli occhi dei cinesi – abbia cercato di mettere una pezza alla gaffe, sostenendo di aver chiamato lei Trump, per congratularsi per la sua elezione, la mossa del presidente Usa di twittare immediatamente la notizia, potrebbe indirizzare il parere cinese su Donald Trump in una direzione ben precisa. Pechino è alle prese con l’analisi di quello che potrebbe essere «l’effetto Trump».
I media locali hanno predicato calma, scetticismo e curiosità, nella speranza che in fondo nulla potrebbe cambiare. Pechino ha annunciato un incontro da svolgersi nel 2017 a Pechino, tra tutti i paesi, 65, coinvolti nel progetto «One Belt One Road», la nuova via della seta. Ha ricordato la propria «ascesa pacifica» e il suo sostegno economico finanziario, ovvero la banca di investimenti a guida cinese (Aiib) cui hanno già aderito anche Gran Bretagna e Canada. Ha fatto intendere di essere in grado di approfittare di un’eventuale eclissi internazionale degli Usa.
Questa fase di studio e moderata proposizione è stata sconquassata dalla telefonata Trump-Tsai. Il fatto è che per i cinesi il concetto di «perdere la faccia» è fondamentale nella vita sociale e finisce per essere declinato anche in ambito internazionale. Se Trump avesse effettuato la telefonata senza renderla pubblica, si sarebbe potuto capire, fa parte del gioco. Ma renderla pubblica significa «provocare»: potrebbe essere questo il ragionamento che aleggia a Zhongnanhai il Cremlino cinese.
Ufficialmente la Cina ha risposto in maniera pacata, supportata dalla Casa bianca che ha ribadito come secondo gli Usa esista «una sola Cina». Nel web cinese si cerca una sorta di giustificazione, ricordando come Trump al momento non sia ancora ufficialmente il presidente degli Stati uniti.
Il problema, eventualmente, è che nel corso della giornata di ieri Trump ha twittato: «Interessante il fatto che gli Usa vendano miliardi di equipaggiamenti militari a Taiwan, ma che io non possa rispondere a una telefonata di congratulazioni». Il presidente americano, evidentemente, sapeva cosa stava facendo. E da parte di Trump anche questa telefonata potrebbe far parte di una sua strategia per capire le reazioni dei cinesi, per capire fino a che punto spingersi. Interessante un altro spunto: questa impasse diplomatica è accaduta proprio mentre Henry Kissinger è in visita in Cina.
La vecchia volpe della diplomazia americana, grande conoscitore della Cina e «mente» proprio del riavvicinamento tra Washington e Pechino, ha incontrato a porte chiuse il leader Xi Jinping. Nei giorni successivi all’elezioni di Donald Trump si era fatto il suo nome come «suggeritore» di Trump per quanto riguardava la relazione con la Cina.
[Pubblicato su il manifesto]