Per una volta il Sesto Plenum del Partito comunista cinese, conclusosi ieri a Pechino, ha prodotto quanto si prevedeva: una consacrazione – se ancora ce ne fosse stato bisogno – di Xi e il suo corso avviato verso un terzo mandato.
È fuori dalle stanze segrete del Partito che le cose sembrano procedere in modo più critico. Forse anche per affrontare difficili battaglie sociali in casa, il Pcc ha da tempo deciso di seguire la strategia dell’uomo forte – ma non da solo – al comando.
Secondo alcuni osservatori questo processo sarebbe iniziato tra il 2008 e il 2011, in realtà, quando timori di rivoluzioni per procura e rischi di dover affrontare scelte importanti, imposero al Partito una strada precisa, fatta di leadership determinata e metodi bruschi. Per questa nuova era del Pcc venne scelto Xi, che ha poi dimostrato di saper ricoprire bene il ruolo affidatogli.
Il suo regno, secondo il sinologo Jeremie Barmé, potrebbe tuttavia essere definito un «periodo di transizione», ricordando quello vissuto dal Partito nel post 1989, fino alla spinta sulle riforme avviata poi nel 1992. La domanda da porsi è: arriverà mai, oggi, il 1992?
Perché fuori dall’autocelebrazione del Pcc, ovvero nella società cinese, sta succedendo quasi di tutto: il colosso dell’immobiliare Evergrande dichiarata fallita la sera prima dell’ultimo giorno di Plenum da una società di consulenza tedesca (allarme poi semi rientrato); l’editor in chief del Global Times, quotidiano in inglese del Pcc ultra nazionalista e solitamente impegnato in aspri scontri sui social contro Usa e Occidente, che posta su Weibo un commento nel quale si lamenta delle ingerenze del Partito sui media, aprendo un baratro di potenziali speculazioni, tanto più in epoca di Plenum.
Contemporaneamente la popolazione cinese sembra ormai esausta delle politiche per il Covid, preoccupata per la piega economica verso una crescita più bassa o un periodo di scarsità (come sottolineato da Damien Ma del Paulson Institute), spaventata dalla possibilità di dover ben presto pagare una tassa sulla casa, disorientata dalle legnate che il Partito distribuisce a destra e manca, provocando perdita di lavoro e reddito.
Mai come oggi il Pcc sembra essere separato dal corpo sociale, in particolare quello afferente alla classe media sulla cui crescita il Paese ha scommesso da tempo.
Ci si è chiesto a lungo quanto Xi Jinping sia saldo al comando o se possano esistere fronde contro la sua leadership, ma sembra più probabile che per lui i problemi non arriveranno dal Partito, concorde nella scelta di una torsione autoritaria per tempi potenzialmente delicati; i problemi potrebbero arrivare da tutti quanti sono stati bruciati dalla politica di Xi: imprenditori, classe media e funzionari di basso rango la cui carriera è stata investita dalle scelte personali, in materia di alleati fidati anche estranei ai percorsi classici, proprio di Xi Jinping.
Cominciano a essere tanti gli scontenti. Il Pcc di solito registra questi sentimenti, ma oggi appare quasi prigioniero della propria autoanalisi e alla ricerca di una giustificazione del suo ruolo predominante nella società cinese.
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.