Chi ha dimenticato piazza Tian’anmen? Chi testimone vicino e lontano di quel 4 giugno 1989 è riuscito ad archiviarne l’ombra molle, la voce sempre più flebile dei fucili, degli scoppi, delle urla di un’intera nazione allora uniti in un unico coro? Quanti testimoni di quell’evento sono ancora oggi disposti a essere tali? La biblioteca dei ricordi.
Scriveva bene Liu Xiaobo nelle sue Elegie del Quattro giugno:
Chi è, che per caso ha immortalato
il ragazzo davanti al cingolato
che scuoteva la mano e il braccio
commuovendo il mondo intero
Eppure, tranne il cannone del cingolato
nessuno ha mai visto bene il suo viso
Il Ventesimo secolo è trascorso. In buona parte piazza Tian’anmen è stata dimenticata. Anzi, per dirla in termini più accorti, è stata rimossa, dislocata altrove, in quella zona grigia della memoria dove i volti si confondono, le trame diventano opache, e non v’è luce che faccia netti i contorni di quel che è bianco, di quel che è nero: ogni cosa è impastata di sé e della sua eco ossessiva, vicina nel suono alla risata demente di chi non sa più ricordare, al ghigno dilatato e grottesco degli uomini ritratti da Yue Minjun.
È stata rimossa piazza Tian’anmen, sì, in prima battuta dal governo cinese, dallo Stato, sin dall’alba del 5 giugno 1989. La Cina allora non seppellì i suoi morti. Li espose. E i corpi imputridirono, la materia di cui erano fatti esalò, si legò ai muri delle case, coprì per sempre il sole. Simili al Creonte dell’Antigone di Sofocle, i governatori impedirono il seppellimento delle migliaia di morti di piazza Tiananmen. Mostrati e poi nascosti agli occhi di un’intera nazione, quei cadaveri furono il monito per le opposizioni a venire. Per costruire la nuova Cina, la Cina in cui «arricchirsi è onorevole» non serviva dissidenza, ma acquiescenza.
Prima della strage, la Porta della Pace celeste era coperta di tende, abitate da giovani e meno giovani che cantavano l’Internazionale. Sembra una calligrafia, ma non lo è. Anche questo fu piazza Tiananmen. In molti penseranno che banalizzare un simile evento sia un reato, complessa è la dinamica che ha condotto uno Stato a massacrare i propri cittadini. Bene, probabilmente è così. A questi si potrebbe rispondere puntando l’indice verso piazza Tian’anmen, e così domandare «Cosa vedi?»: uno spazio grande quanto nove campi da calcio, un deserto.
È la nuova Cina, un ibrido ancora nella condizione di feto, del quale è difficile – forse impossibile – prevedere i tratti del volto. Mostruoso o meno che sia tale volto – oppure leggiadro, celestiale – le parole che scandiscono il tempo della sua formazione, sono le stesse pronunciate negli slogan in vigore oggi: «Partecipo, contribuisco, gioisco». Inutile tentare di opporre un filtro filologico al senso di simili parole – al senso di queste parole nella Repubblica Popolare –, inutile immaginarne la declinazione nella vita di quella classe media senza nome né parte, la stessa che si avvia a solcare le grandi praterie del consumo interno, vera figlia naturale della nuova Cina.
«Quando le parole ‘partecipazione’, ‘sogno’, ‘gioia’ sono pronunciate dai despoti diventano brutte parole prive di significato», così ha scritto una volta Ma Jian, autore dell’unico vero affresco letterario sulla strage di piazza Tian’anmen, e sul sacrificio generazionale che essa comportò, senza appello. In quei giorni Deng Xiaoping disse in televisione: «La stampa straniera afferma che abbiamo sparato, e questo lo ammetto. Ma sostenere che i carri armati abbiano caricato cittadini inermi è una deplorevole menzogna». Quanti testimoni di quell’evento sono ancora oggi disposti a essere tali? Forse è utile ricordare che l’etimologia di ‘martire’ è appunto ‘testimone’.
Ciò che il potere reprime, ciò che l’appartenenza politica nega, la letteratura fa riemergere, a questo la scrittura concede piena cittadinanza. Piazza Tian’anmen è stata il teatro – nel senso di un immenso palco – di una tragedia che ha i contorni della storia, di una specifica storia, ma che è anche lo spazio eletto in cui il conflitto dei singoli contro quel potere, contro quella forzata appartenenza, continua a essere messo in scena. Ma Jian con il suo Beijing Coma, ha realizzato una sorta di memoria enciclopedica di quell’evento, ma sono tanti – e non tutti ancora tradotti in italiano – gli autori che hanno collocato in quella piazza più o meno esplicitamente i loro soggetti narrativi, il riemergere di quella rimozione.
Una piccola biblioteca che contempla i nomi di Gao Xingjian, Liao Yiwu, Liu Xiaobo, Yu Hua, Su Tong, Chan Koonchung, Shan Sa, con il suo La porta della Pace Celeste. Proprio quest’ultimo risponde quasi in pieno alla metafora del palcoscenico. Simile a una partitura dell’Opera pechinese, vede al centro della scena la ribelle Aymei, leader degli studenti in piazza, e il soldato Zhao.
Le loro sono storie irriducibili, eppure entrambi si ritrovano in fuga: l’una dal mortale incendio della piazza, l’altro dal linciaggio del popolo che si ribella, feroce, all’assedio dei soldati. Alle loro spalle – e nei loro occhi – il centro della Cina brucia, i morti si accatastano frammisti a lenzuola, incerate, coperture di tende da campo, come in un dipinto di Chen Guang. La cruda realtà della strage preme, e di contro i due protagonisti, cederanno in modi e in tempi diversi al pensiero del bello, della pace, della luce che pure illuminerà di senso nuovo le strade di una Pechino allagata di sangue.
All’orrore si risponde con la vita, questa la morale della storia di Shan Sa. Viene da chiedersi: è utile rivivere quell’orrore per ricordarsi che una vita esiste? Gli scaffali della biblioteca di piazza Tian’anmen si riempiono con sempre maggiore velocità, i caratteri criptano le strade – più o meno contorte – intraprese dagli scrittori, dalle scrittrici e dai loro protagonisti per il riemergere al sole della Storia. Scrisse Walter Benjamin: «Come il sole al sommo della sua orbita la conoscenza delinea i contorni delle cose con il massimo rigore». E luce sia.
*Danilo Soscia è nato a Formia nel 1979. Studioso di letteratura di viaggio e di cultura cinese, vive e lavora a Pisa. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con Condòmino (Manni). Ha curato il volume In Cina. Il Grand Tour degli italiani verso il Centro del Mondo 1904-1999 (Ets) e In Giappone. Scrittori italiani alla scoperta del Sol Levante (Ets), di prossima uscita.