La memoria, spesso distorta, e l’amnesia. L’incompletezza dei dati e il solito rito di controllo diffuso, con polizia e giornalisti stranieri che giocano a guardie e ladri. La Pechino del giugno 2014 è un altro mondo rispetto a quella di quei giorni dell’89, ma lo spettro di Tian’anmen continua ad aleggiare. Spesso, proprio a causa delle autorità. Cosa resta di Tian’anmen, 25 anni dopo?
Innanzi tutto, la reazione delle autorità cinesi. Sempre quella, ma questa volta di più. I i bo’an, gli anziani con la fascia rossa al braccio, proliferano improvvisamente negli hutong di Pechino, in questi giorni ce ne è in media uno ogni dieci metri. Stanno seduti sulle loro seggiole come i nostri vecchietti nei paesi del meridione, guardano e osservano tutto. Poi c’è la Rete che rallenta e qualche altro fenomeno buffo. Un operatore italiano di una Ong ha scoperto che nel compound dove vive hanno deciso di installare la fibra ottica proprio a partire dal 4 giugno: ma guarda un po’, senza Rete per qualche giorno, ma alla fine “stiamo lavorando per voi”. Poi c’è l’università di scienze politiche che “per migliorare le relazioni tra studenti e corpo insegnante e per permettere a tutti di godere della nostra meravigliosa natura”, ha deciso che il 3 e il 4 si va tutti in vacanza “nella steppa di Bashang (Mongolia Interna) o a Shidu (periferia di Pechino)”. Attenzione: “Tutti gli studenti stranieri devono partecipare alla gita di studio!”, recita il comunicato.
C’è poi il caso a parte dei giornalisti stranieri. Qualcuno è stato invitato a “prendere il tè” dalla polizia, qualcun altro – va detto – è andato anche a cercarsela. Una troupe francese ha pensato bene di gironzolare per Sanlitun – il quartiere del consumismo sfrenato pechinese – con l’iconica foto dell’”uomo del carro armato” – quello che il giorno successivo alla repressione dell”89 si parò davanti a un tank con la sportina della spesa – chiedendo a destra e manca che cosa la gente sapesse di Tian’anmen: sono stati arrestati dopo dieci minuti. Durante l’interrogatorio, hanno chiesto alla polizia quale legge avessero infranto. Un ufficiale ha risposto: “Non è una questione di legge, ma di cultura. La cultura è sopra la legge”.
Quello che ancora non si sa, è il reale numero dei morti di Tian’anmen. Si va dalla versione ufficiale di poche centinaia, alla cifra di circa 4mila, accreditata da alcuni studiosi. Nei giorni di giugno del 1989, la Croce Rossa Cinese fu la prima fonte ufficiale citata dai media occidentali, secondo i quali dichiarò 2,600 morti nelle ore immediatamente successive alla repressione. Salvo poi negare. Le madri di Tian’anmen, un’associazione che faticosamente preserva la memoria di quei fatti, hanno finora raccolto la prova – basata su storie raccontate dalle famiglie – di circa 200 morti. I giornalisti di tutto il mondo usano oggi una dicitura che è ormai diventata quasi un cliché: “I morti di Tian’anmen furono centinaia, forse migliaia”.
E poi c’è la memoria o l’amnesia collettiva.
Una giovane nata negli anni Ottanta, della generazione post Tian’anmen, ci ha dato una lettura interessante. Ha detto: “Io penso che la morte degli studenti sia stata un peccato, perché lì abbiamo perso molti talenti”. Nel nostro immaginario da occidentali, Tian’anmen significa soprattutto l’ideale democratico, oltre a l’orrore per l’eccidio a prescindere da chi fosse il morto ammazzato. Eppure questa ragazza parla soprattutto dei “talenti” sprecati, legge cioè quegli eventi con gli occhi dell’oggi: la Cina che cerca di diventare superpotenza evoluta ha bisogno di intelligenza applicata per creare innovazione, per competere, per dire la sua nel mondo. È come se Tian’anmen fosse stata un’occasione persa, un ritardo accumulato in questo senso. Ed è molto interessante perché quella giovane usa, forse inconsapevolmente, la narrativa ufficiale della Cina di oggi, che si vuole proiettata nel futuro del “grande sogno cinese”, per ribaltare però il discorso: “Se vogliamo essere i numeri uno, se abbiamo bisogno di così tanta gente in gamba, perché nell’89 li avete ammazzati?”
A questo proposito, c’è però un mito da sfatare: non erano solo studenti. E mentre la piazza vera e propria, Tian’anmen, è il simbolo del movimento di protesta, non è però il luogo dove si è consumato l’eccidio maggiore. In realtà gli ultimi manifestanti che erano stati circondati dalle truppe su tutti i lati e si erano raccolti intorno al monumento degli Eroi del Popolo dove era stata anche allestita una tendopoli, giunsero a un compromesso con i responsabili militari che li lasciarono uscire dal lato sudest della piazza. Quelli che restarono a resistere in Tian’anmen e che, si dice, furono uccisi anche schiacciati dai tank che passarono sulle tende, sarebbero al massimo qualche decina. Su questo concordano anche testimoni oculari occidentali.
Gli eccidi maggiori, anche secondo la mappa che viene costantemente aggiornata dalle madri di Piazza Tian’anmen, si consumarono invece lungo la Chang’an jie – la grande direttrice est-ovest che collega la piazza con le periferie orientale o occidentale. Soprattutto a occidente, nella zona di Muxidi che sta a circa 5 chilometri dalla piazza, ci fu una vera e propria battaglia, con barricate improvvisate composte da autobus messi di traverso, bastoni e bottiglie incendiarie, e l’esercito che sparava prendendo di mira anche le case. Lì morirono centinaia di persone di tutti i tipi, residenti, anche piccoli funzionari del Partito che resistevano dalla parte delle barricate, e questo ci fa dire che non fu solo una faccenda che riguardava gli studenti. C’erano anche operai scesi in sciopero e gente comune, pechinesi.
Le autorità utilizzarono proprio gli episodi di resistenza della popolazione per giustificare la repressione dura, dicendo che i soldati dovettero difendersi e che parecchi morirono nei loro tank incendiati. In realtà i numeri finora emersi – il fatto cioè che le vittime certificate siano quasi esclusivamente civili – rende molto poco plausibile questa versione.
Una ragazza nata un anno dopo Tian’anmen, nel 1990, ci ha raccontato che ha saputo dell’eccidio solo alle superiori, quando un amico le ha fatto vedere un documentario prodotto a Taiwan. La cosa l’ha impressionata, certo, ma non le impedisce di credere alla versione che le hanno insegnato, secondo cui tutto sommato anche gli studenti avessero delle armi, che sono poi state addirittura ritrovate. Le fonti parlano effettivamente di una mitragliatrice comparsa improvvisamente in Tian’anmen quando era già giunta notizia di morti e feriti sulla Chang’an jie e vie limitrofe, un’arma che alcuni operai avevano “conquistato” ai soldati, ma qualcuno convinse poi i lavoratori a non servirsene.
Tuttavia, la cosa che più importa è che quella ragazza nata un anno dopo Tian’anmen non giudica quell’evento, quel movimento, qualcosa di fondamentale oggi. Qualcosa che ha plasmato la sua stessa vita. Ragioni e torti sono un po’ distribuiti e quindi dimentichiamo e guardiamo avanti. Perché a voi occidentali interessa tanto?
Ed è così per la maggior parte dei Ba lin hou e dei Jiu lin hou, cioè i nati negli anni Ottanta e Novanta, che hanno goduto del grande scambio che è avvenuto tra il Partito e la generazione di Tian’anmen: andate e arricchitevi, lasciate perdere la politica e fateci governare.
Eppure Tian’amen ha plasmato il futuro in cui loro vivono.
Se per esempio oggi le autorità cinesi risolvono gli oltre centomila “incidenti” che percorrono la Cina ogni anno con comuni manganellate e universali proiettili di gomma, è proprio perché al tempo di Tian’anmen non ce li avevano: in dotazione c’erano solo i proiettili veri, esplosivi, e quindi nel momento in cui attaccarono finirono inevitabilmente per uccidere. L’ammodernamento della sicurezza interna cinese nasce anche dalla necessità di non avere mai più una ferita Tian’anmen.
Ma ancora più importante è il fatto che due giorni dopo Tian’anmen, Deng Xiaoping convocò i vertici del Partito per capire come fosse possibile recuperare un’immagine credibile della Cina a livello internazionale, necessario per portare avanti le riforme economiche. Fu lì che si stabilì il dogma della stabilità interna unita alla crescita pacifica all’esterno che ancora plasma le relazioni di Pechino con il mondo. Stabilità interna significa rifiutare qualsiasi intromissione negli affari domestici degli altri Paesi perché in cambio si vuole che gli altri facciano lo stesso. E questo dura fino a oggi. Crescita pacifica significa rinunciare alle velleità della Cina di Mao, della guerra con l’India o di quella di Corea, dell’esportazione della rivoluzioni, delle forniture di armi ai movimenti guerriglieri. Ed è questa la politica estera cinese.
Ecco come Tian’anmen, volente o nolente, plasma ancora l’attualità cinese.
È un’assenza-presenza.
Una donna della generazione di Tian’anmen dice che tutti i suoi coetanei sanno, ma preferiscono non occuparsene. C’è altro da fare nella vita. A nessuno sembra importare più molto di Tian’anmen, a parte i dissidenti e i fuoriusciti, a parte le madri. Però, aggiunge la donna, “è il governo che ci ricorda ogni anno di Tian’anmen”.
È questo il paradosso: con le sue paure, i bo’an schierati negli hutong di Pechino, la Rete che rallenta, la piazza presidiata (dei giornalisti stranieri che vanno “a prendere il tè”, ai cinesi frega presumibilmente ben poco), il governo-Partito ricorda costantemente che c’è stata Tian’anmen a chi magari ne farebbe anche a meno.
E poi c’è un altro fatto: la prossima generazione di leader, dopo Xi Jinping, quella che arriverà nel 2022, sarà la generazione di Tian’anmen. Lì forse la memoria riaffiorerà, ma accettiamo scommesse sul fatto che riemergerà senza che si nomini l’innominabile. Così come questo Paese si è demaoizzato nel nome di Mao, introdurrà forse alcuni degli ideali di Tian’anmen senza chiamarla per nome.