Un effetto domino capace di mettere in crisi l’intero equilibrio politico cinese. Le proteste di Hong Kong con i loro numeri da record – 1 milione e 700mila persone in marcia soltanto il 19 agosto – rischiano di ripercuotersi anche sui rapporti con Taiwan, la provincia indipendente con cui Pechino cerca da sempre una riunificazione. La posta in gioco è altissima: il successo delle manifestazioni nell’ex colonia segnerebbe la fine della Cina come la conosciamo, un equilibrio unico al mondo basato sul modello «un paese, due sistemi». La formula, frutto dell’accordo tra Cina e Regno unito del 1997, garantisce ad Hong Kong ampia autonomia e un distinto ordinamento, una propria moneta e un sistema economico capitalista, ma non l’indipendenza né tanto meno libere elezioni.
Il successo delle proteste pro-democrazia, però, mina alla radice la credibilità del modello. E le conseguenze per l’unità nazionale potrebbero essere fatali. A preoccupare Xi Jinping è anche l’influenza che i moti di Hong Kong potrebbe avere sulla diplomazia con Taiwan, l’autoproclamata «Repubblica di Cina», territorio indipendente dal 1949 quando vi si rifugiarono i nazionalisti sconfitti da Mao. La riunificazione con l’isola ribelle è «un obiettivo primario della nazione e il destino ineluttabile» del suo popolo, scrive l’organo ufficiale del Partito Comunista.
E poiché «un Paese, due sistemi» è la regola d’oro con cui il regime di Xi immagina di governare anche Taiwan, sull’isola guardano da sempre con interesse alle vicende di Hong Kong. L’attenzione, anzi, è cresciuta negli ultimi anni. Già dal 2014 – quando i movimenti sociali anti-cinesi esplosero sia ad Hong Kong che a Taiwan – l’idea di un destino comune si è affermata nel dibattito pubblico di entrambi i territori.
In undici settimane, però, il popolo di Hong Kong ha mostrato che quella dei due sistemi non è affatto una soluzione condivisa, ma solo la strategia con cui la Cina mantiene l’autorità sulle sue province. Un messaggio che comporta ovvi rischi per Pechino e allontana la possibilità di riportare Taiwan sotto il proprio controllo. Non a caso, fino a oggi, nessun politico a Taipei si è mai espresso a favore del modello «due sistemi»: e secondo gli osservatori l’ostilità è destinata a crescere. «Le violenze della polizia contro i dimostranti hanno fatto disaffezionare ancora di più i taiwanesi al modello», dice Dafydd Fell, direttore del centro studi su Taiwan alla School of Oriental and African Studies. «Credo che i fatti di Hong Kong avranno un’enorme influenza sulla politica e sull’elettorato dell’isola, diviso tra indipendentisti da una parte e difensori dello status quo – e delle relazioni commerciali con la Cina – dall’altra».
«Addirittura – afferma – le proteste hanno costretto il Kuomintang, il partito conservatore di Taiwan, ad auto-censurare le proprie posizioni a favore di un avvicinamento alla leadership cinese». Dall’altra parte il supporto ai moti di Hong Kong da parte di Tsai-Ing Wen, presidentessa di Taiwan e leader del partito progressista e indipendentista, ha fatto schizzare la sua popolarità e potrebbe fruttarle la riconferma alle elezioni del 2020. E anche questo risultato potrebbe essere un problema per Pechino, distruggendo dalle fondamenta l’immagine cara a Xi di una Cina forte e unita sotto l’egida del Pcc.
Guardare a Taiwan, inoltre, può lanciare qualche spunto per rispondere al grande interrogativo di questi giorni: se, e quando, il regime cinese sceglierà di usare le armi.
Se la riunificazione è uno dei principali interessi nazionali della Cina c’è da pensare che Xi mobiliterà ogni risorsa per limitare gli stimoli indipendentisti che i fatti di Hong Kong potrebbero avere sulla società civile dell’isola. Un intervento massiccio, però – data la compattezza dimostrata nel passato dai taiwanesi – potrebbe favorire l’ascesa di una classe dirigente intenzionata ad allontanarsi ulteriormente dalla Cina continentale e di promuovere il riconoscimento di Taiwan da parte della comunità internazionale. Il che renderebbe, in un futuro non troppo lontano, la provincia ribelle uno Stato sovrano e indipendente di diritto oltre che di fatto: un rischio che il leader supremo non sembra disposto a correre.
Di Silvia Frosina
[Pubblicato su il manifesto]