La presidente Tsai Ing-wen ha detto di provare «empatia» nei confronti degli ucraini, ma Taipei non è Kiev. Non lo è per Pechino
Oggi l’Ucraina, domani Taiwan. La tentazione di scrivere questa equazione è forte. A partire da Washington, dove diversi politici e militari sostengono che la reazione dell’occidente all’invasione della Russia sia osservata dalla Cina che potrebbe ripetere le stesse azioni su Taiwan. Forse, però, è un’equazione frettolosa. «La Cina non avvierà irrazionalmente azioni militari solo perché Putin sta invadendo l’Ucraina», dice Lev Nachman, postdoctoral research fellow all’Harvard Fairbank Center. «Se Pechino opterà per un’azione militare non sarà adesso e sarà a prescindere da quanto fa la Russia».
La presidente Tsai Ing-wen ha detto di provare «empatia» nei confronti degli ucraini, ma Taipei non è Kiev. Non lo è per Pechino. Primo punto della narrativa del Partito comunista sul tema: Taipei non si deve paragonare a Kiev nel tentativo di internazionalizzare una vicenda interna alla Cina. Ergo non assimilabile alle azioni del partner (non ancora alleato) russo. Tra le righe: a differenza di Putin la Cina non minaccia l’integrità territoriale di un paese che fa parte delle Nazioni Unite, distinguo utilizzato dal ministro degli Esteri Wang Yi alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco.
Secondo punto della narrativa cinese: la colpa della guerra in Ucraina è tutta degli Usa che allo stesso modo non onorano gli impegni su Taiwan (per esempio vendendo armi) con conseguenti rischi per lo status quo. Dunque, secondo Pechino, in caso di crisi su Taipei la responsabilità sarà sempre americana. Il punto seguente della narrativa, quello su cui Pechino insiste di più, chiarisce che le navi da guerra non sono ancora pronte a salpare sullo Stretto. Come già accaduto dopo la caduta di Kabul, media e social cinesi insistono sul sottolineare l’inaffidabilità di Washington che «gioca sulla pelle degli ucraini».
Per poi abbandonarli come una pedina di un gioco più grande. La stessa cosa che potrebbero fare con Taiwan. Proprio mentre l’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino promette nuovi vantaggi per imprese e individui taiwanesi che scelgono di lavorare nella Repubblica popolare.
Una sottile partita psicologica nella quale l’arsenale normativo è per ora più preoccupante, o più efficace, di quello militare. Anche se poco dopo i carri russi 9 aerei cinesi sono entrati nello spazio di identificazione di difesa taiwanese, come avevano fatto ad agosto dopo il ritiro dall’Afghanistan.
Da allora la Casa Bianca si prodiga a rassicurare Taipei sulla volontà di difenderla. Tra gaffe (di Biden) e finti segreti svelati (la presenza dei militari Usa a Taiwan), l’ambiguità strategica sembra essere meno ambigua. Kiev è il 67esimo partner commerciale di Washington, Taipei il nono. Senza contare il ruolo cruciale dei suoi semiconduttori. Taiwan ha anche un’importanza simbolica. Esempio vivente, per usare una visione alla Mike Pompeo (che tra l’altro sarà a Taipei nei prossimi giorni), che un governo etnicamente cinese può prosperare senza la guida comunista.
Per gli Usa, la Cina è diventato il primo rivale. Per la Cina attaccare Taiwan significherebbe ammettere il fallimento dell’efficacia del modello un paese, due sistemi. E recidere quei legami col mondo occidentale che invece con la sua attuale postura sulla crisi ucraina lascia intendere di volere in qualche modo preservare. Senza contare che Xi, in avvicinamento al XX Congresso che dovrà sancirne il terzo mandato, avrebbe bisogno di stabilità e non avventure in grado di minarne il consenso. Vista dalla Cina, attaccare Taiwan significherebbe attaccare se stessa. Se in futuro dovrà farlo, lo farà a prescindere da quanto Putin travalichi l’integrità territoriale ucraina.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.