Tsai Ing-wen a New York e verso la California, Ma Ying-jeou incontra Song Tao e dice “siamo tutti cinesi”. Jet militari sullo Stretto in attesa di Tsai-McCarthy (e Ma-Wang Huning?). L’impatto delle due visite sulle elezioni del 2024. Ma anche novità diplomatiche, semiconduttori con intervista a Frank Huang di Powerchip. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)
Un babbuino è stato ucciso dopo essere rimasto in libertà per oltre due settimane in giro per il nord ovest dell’isola principale di Taiwan, scatenando indignazione e accuse di crudeltà verso gli animali. Il babbuino è fuggito da uno zoo ed è stato avvistato per la prima volta il 10 marzo nella città di Taoyuan. Per quindici giorni sono state allestite squadre di ricerca in tutta la regione, mentre il babbuino attraversava a zig-zag vari distretti. Dopo diversi tentativi falliti, il 27 marzo le autorità hanno catturato il primate con un dardo tranquillante. Ma il primate è morto poco dopo e i funzionari hanno dichiarato che l’animale era stato trovato con ferite da arma da fuoco. Ci saranno punizioni per i manager dello zoo, invitati dal governo ad adottare una sorveglianza con chip degli animali.
Perché cominciare da questa vicenda a cavallo di due settimane caratterizzate dalle visite di Tsai Ing-wen e Ma Ying-jeou (qui il contesto nei dettagli) tra America centrale (e Stati Uniti) e Repubblica popolare cinese? Semplice, perché la notizia del babbuino ha letteralmente monopolizzato l’attenzione dei media taiwanesi che ne hanno parlato quasi ininterrottamente.
Tsai Ing-wen tra New York e America centrale. In attesa di California e McCarthy
Prima di partire, Tsai ha visitato un’importante base militare a Chiayi. Poi il decollo mercoledì 29 marzo verso il primo scalo di New York. Da Pechino sono arrivati diversi avvertimenti sia in direzione di Taipei, sia in direzione di Washington. In particolare sull’incontro con McCarthy. La Casa Bianca ha fatto sapere che non sono in programma incontri con membri dell’amministrazione Biden. Ma Xu Xueyuan, incaricato d’affari presso l’ambasciata di Pechino negli Stati Uniti, ha anche lanciato l’allarme di un altro “grave scontro” nelle relazioni tra le potenze rivali se dovesse aver luogo il previsto incontro tra Tsai e il presidente della Camera degli Stati Uniti Kevin McCarthy, in programma per mercoledì 5 aprile.
Taiwan ha tutto il diritto di “connettersi con il mondo”, ha dichiarato Tsai mentre si imbarcava. “Le pressioni esterne non fermeranno la nostra determinazione a muoverci verso la società internazionale”, ha dichiarato Tsai ai giornalisti prima di decollare. “Siamo calmi, fiduciosi, senza compromessi e senza provocazioni”.
A New York, Tsai ha ricevuto un’onorificenza per la Global Leadership dallo Hudson Institute, think tank di cui fa parte anche Mike Pompeo. In un discorso a porte chiuse, ha dichiarato che “il popolo di Taiwan auspica la pace, ma la storia ci dice che il modo migliore per evitare la guerra è renderci più forti”.
Diversi manifestanti pro-Pechino (ma anche pro- Taipei) si sono radunati davanti all’hotel e alcuni dei luoghi in cui si è presentata Tsai.
Nessun evento dello scalo di New York è stato pubblico, in una visita che per il Wall Street Journal è stata sinora “volutamente di basso profilo“. Ma secondo i media americani Tsai avrebbe incontrato il leader democratico della Camera, Hakeem Jeffries. Nessuna delle due parti ha confermato, almeno per ora. Prevedibile che Tsai ne parli una volta tornata a Taipei, quando il tutto sarà meno sensibile.
Contestualmente allo scalo newyorkese di Tsai, si è svolto il summit per la democrazia organizzato da Biden a Washington. Taipei è stata rappresentata da Chen Chu, presidente dello yuan di controllo e presidente della Commissione per i diritti umani. Mandato in onda anche un discorso preregistrato della ministra degli Affari digitali Audrey Tang, che aveva partecipato allo stesso modo anche nella prima edizione del summit. Anche la rappresentante di Taipei negli Stati Uniti, Hsiao Bi-khim, ha partecipato virtualmente al vertice dopo aver incontrato Tsai a New York.
Nel frattempo, Tsai si è spostata in Guatemala, dove ha riaffermato i rapporti bilaterali ufficiali col presidente Alejandro Giammattei. Domenica 2 aprile è arrivata invece in Belize, prima dello scalo in California sulla strada del ritorno a Taipei.
A Tsai ha dedicato un pezzo-ritratto il New York Times: “Nota per il suo tranquillo pragmatismo, Tsai Ing-wen ha inaugurato una nuova era di cooperazione americana”, si legge nel sottotitolo.
Ma Ying-jeou in Repubblica popolare tra memoriali, università e Song Tao. In attesa (forse) di Wang Huning
Erano le 4 e 21 del pomeriggio di lunedì 27 marzo, quando il volo Air China con a bordo Ma Ying-jeou è atterrato a Shanghai. È la prima storica volta dal 1949 che un presidente o ex presidente taiwanese mette piede in Repubblica popolare cinese. “Ho aspettato per 36 anni questa occasione di visitare la Cina continentale”, ha detto Ma ai giornalisti all’aeroporto di Taoyuan. “Spero che la pace possa arrivare presto a Taiwan”, ha aggiunto prima di salire a bordo. Al suo arrivo a Shanghai, un bouquet di fiori ma niente tappeto rosso. Ad accoglierlo tra gli altri Chen Yuanfeng, vicedirettore dell’Ufficio per gli affari di Taiwan del Consiglio di stato cinese, e Zhang Wei del partito di Shanghai. Un primo segnale che difficilmente il suo viaggio non assumerà una connotazione politica, nonostante venga presentato come personale e culturale.
Ma si è spostato da Shanghai a Nanchino, dove ha subito incontrato Xin Changxing, segretario del Comitato provinciale del partito del Jiangsu. Nel suo colloquio con Xin ha subito riaffermato l’adesione al “consenso del 1992”, vale a dire l’accordo trovato a suo tempo da Guomindang e Partito comunista secondo cui viene riconosciuto il principio della unica Cina ma se per Pechino unica Cina significa Repubblica Popolare, il GMD sostiene non ci sia accordati su quale sia la Cina legittima secondo il cosiddetto principio “una Cina, diverse interpretazioni”. Da qui anche la diversa definizione di status quo che danno anche oggi le due parti dello Stretto.
Ma ha visitato il mausoleo di Sun Yat-sen a Nanchino, elogiando il defunto leader per i suoi sforzi nel plasmare “ciò che l’etnia cinese dovrebbe essere oggi”.
Ha fatto poi molto discutere, anche e soprattutto a livello internazionale, la dichiarazione di Ma: “Siamo tutti (etnicamente, ndr) cinesi“. Non si tratta in realtà di una novità o in ogni caso di una affermazione inattesa. Nella mia lunga intervista di qualche mese fa pubblicata su Limes, gli avevo chiesto se considera Taiwan ancora una “nazione cinese”. La sua risposta: “Quando ero presidente ho detto che la Repubblica di Cina è il nostro Paese e Taiwan è la nostra casa. Quando la gente mi chiede da dove vengo, a volte dico che vengo dalla Repubblica di Cina, popolarmente conosciuta come Taiwan. A volte dico che vengo da Taiwan, ufficialmente conosciuta come Repubblica di Cina. Noi crediamo ancora nel consenso del 1992, che riconosce l’esistenza di un’unica Cina ma con diverse interpretazioni”. Ergo, la sua dichiarazione di Nanchino esclude certo le minoranze etniche presenti a Taiwan, ma non significa necessariamente dire che taiwanesi e cinesi continentali siano parte della stessa entità statuale. Resta ovviamente palese che la sua dichiarazione, per quanto attesa e in linea con la posizione sua e quella tradizionale del GMD, non trovi il favore della maggioranza dei taiwanesi. Soprattutto di quelli più giovani, tra i quali il senso di alterità va al di là della sfera politica.
Sempre a Nanchino, dopo aver visitato il memoriale delle vittime del massacro perpetrato dai giapponesi, ha affermato che la strage subita negli anni Trenta ha insegnato ai cinesi a rimanere forti e a “non invadere gli altri“, in quello che è apparso anche come un invito a Pechino a non optare per le armi per risolvere la questione sullo Stretto.
Ma ha poi incontrato il segretario della provincia dello Hubei, Wang Menghui. Soprattutto, come anticipato peraltro qui su Taiwan Files, Ma ha incontrato anche Song Tao, direttore dell’Ufficio Affari di Taiwan del Consiglio di Stato cinese dopo il XX Congresso dello scorso ottobre. “Prima di tutto, vorrei ringraziare tutti per l’assistenza e l’accoglienza durante il mio viaggio, e ringraziare anche il direttore Song per aver trasmesso i saluti del signor Xi a suo nome. Colgo anche l’occasione per chiedere al direttore Song di ringraziare il Comitato centrale a suo nome e di inviare saluti al signor Xi a suo nome”. Signor Xi e non presidente Xi, come da accordi del 2015 a Singapore durante lo storico incontro tra i due leader. Ma ha dichiarato a Song che “l’ostilità pubblica attraverso lo Stretto di Taiwan ha raggiunto livelli preoccupanti negli ultimi anni a causa della riduzione dei contatti”.
Ma ha poi reso omaggio alla tomba del nonno paterno Ma Li-an nella provincia di Hunan. Ma ha letto una dichiarazione in hunanese, il dialetto che avrebbe parlato suo nonno, raccontando la storia della sua famiglia e il fatto di essere diventato presidente della Repubblica di Cina. Tutti i riferimenti alla Repubblica di Cina sono stati censurati dai media di stato cinesi. All’Università di Hunan, Ma ha inoltre spiegato ai rappresentanti degli studenti cinesi che “secondo la nostra definizione, il nostro paese ha due parti: una si chiama area di Taiwan e l’altra area continentale. Entrambe appartengono alla nostra… Repubblica di Cina”. Una affermazione che potrebbe fargli guadagnare qualche punto sul fronte interno, per la difesa della sovranità della Repubblica di Cina. Anche se i sostenitori del DPP continuano a vedere il viaggio di Ma in modo negativo, così come alcuni dentro il GMD (della sfida interna per la candidatura al voto ho scritto la settimana scorsa).
Ma rientrerà il 5 aprile a Shanghai. Non è escluso, come già scritto nelle scorse settimane, un possibile incontro con Wang Huning, numero tre della gerarchia del Partito comunista e presidente della Conferenza politica consultiva del popolo cinese. Sarebbe un inedito che un componente del Comitato permanente riceva un ospite fuori dalla capitale, ma potrebbe essere una mossa perfettamente speculare all’incontro Tsai-McCarthy, in grado anche di far vedere presso il pubblico interno teorici “passi avanti verso la riunificazione” e così limitare l’aggressività della reazione.
Secondo Chieh-Ting Yeh, la politica intrastretto di Ma non ha più corrispondenza con la realtà taiwanese.
Jet militari sullo Stretto e la reazione di Pechino
“Non ci sono segnali di dispiegamenti militari insoliti da parte delle forze armate di Pechino in vista della visita del presidente Tsai Ing-wen negli Stati Uniti e in America Centrale”, aveva dichiarato lunedì 27 marzo un vice ministro della Difesa di Taiwan.
Giovedì 30 marzo, però, in concomitanza del primo scalo di Tsai a New York, si sono palesati jet in modalità da combattimento sullo Stretto. E non più così lontani dalle coste. Giovedì pomeriggio, in maniera inusuale, il ministero della Difesa di Taipei ha diffuso un secondo comunicato sulle attività dell’Esercito popolare di liberazione. Segnalando la presenza di 9 aerei oltre la linea mediana (confine non riconosciuto ma ampiamente rispettato fino al viaggio di Nancy Pelosi dello scorso agosto) sui versanti settentrionale, centrale e meridionale “in 5 gruppi di pattugliamento”. Di solito, si aspetta sempre il mattino dopo per le comunicazioni. Una seconda nota significa che è stato osservato un cambio qualitativo (e non quantitativo visto che in passato i jet oltre la linea mediana sono stati anche molti di più). A fare la differenza potrebbe essere la “modalità da combattimento”, o secondo voci l’avvicinamento alle 12 miglia nautiche dalle coste dell’isola principale di Taiwan, limite cruciale mai valicato in passato.
In ogni caso, si tratta di una manovra che esprime coi fatti il disappunto già manifestato a parole per il doppio scalo di Tsai negli Usa. Le tensioni sullo Stretto potrebbero porre un nuovo ostacolo al dialogo in corso tra Pechino ed Europa. Giovedì, Xi Jinping ha ricevuto Pedro Sanchez. Il premier spagnolo ha difeso il piano Zelensky, ma si è detto interessato alla postura di Xi, che ha incoraggiato a parlare col presidente ucraino. Il leader cinese ha ribadito il sostegno a colloqui di pace e ha chiesto di “sbarazzarsi della mentalità da guerra fredda” e delle “sanzioni e pressioni estreme”. Nessuna risposta nemmeno al deciso discorso di Ursula von der Leyen, ma Xi ha sottolineato con toni altrettanto espliciti che la Cina desidera rapportarsi con un’Unione europea dotata di “autonomia strategica”, ergo emancipata dagli Usa. Giovedì il faccia a faccia a Pechino tra Xi, la presidente della Commissione europea ed Emmanuel Macron. A poche ore dal possibile incontro tra Tsai e McCarthy. Ne ho scritto qui.
Scrive The Economist: “Il DPP ha criticato il viaggio di Ma, definendolo un “appeasement” e una “pedina” per l’obiettivo di unificazione del Partito Comunista. Ma anch’esso teme un conflitto. Se Pechino riuscirà a non reagire in modo eccessivo alla visita di Tsai, entrambi i partiti taiwanesi probabilmente rivendicheranno una vittoria del loro pragmatismo. Se Pechino risponderà con la forza, ridurrà le speranze taiwanesi che la buona volontà possa evitare la guerra, indipendentemente dal partito al comando”.
Secondo Taipei, comunque, Pechino non reagirà con la stessa intensità dei giochi di guerra senza precedenti dello scorso anno. Anche un media ultranazionalista come il Global Times sostiene che la visita di Ma possa consentire a Pechino di contenere la reazione all’incontro Tsai-McCarthy.
Wen Ti-sung della Australian National University sintetizza in questo thread un elenco di buone ragioni per cui Pechino potrebbe e dovrebbe contenere la reazione all’incontro.
Più in generale, sui media cinesi di Stato l’attenzione sembra porsi soprattutto su Tsai. Un approccio diverso allo scorso agosto, quando il livello di nazionalismo in concomitanza alla visita di Pelosi aveva toccato più volte ed era indirizzato in maniera più ampia verso Taiwan. In questo caso sembra aver preso una direzione più individuale o comunque rivolta direttamente dal DPP. Il che potrebbe anche portare a una mossa come quella immaginata qui qualche settimana fa: l’inserimento di Tsai nella cosiddetta “lista nera dei secessionisti“. Sarebbe la prima volta per un leader taiwanese in carica, anche se potrebbe rischiare di diventare un boomerang per Pechino in vista del voto del 2024.
Nel frattempo, Pechino ha ribadito che Taiwan potrebbe adottare un sistema sociale diverso da quello della Cina continentale e che “rispetterà pienamente” lo stile di vita della popolazione dell’isola dopo la riunificazione, purché siano garantiti la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina. I passeggeri aerei che viaggiano direttamente tra la Cina continentale e Taiwan sono soggetti a regole meno severe per il test Covid-19 a partire dal 1° aprile.
L’impatto sulle elezioni 2024
Il 2024 è l’anno delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, ma è anche l’anno delle elezioni presidenziali di Taiwan. E l’importanza delle seconde, anche a livello internazionale, non è minore rispetto alle prime. A seconda del vincitore, le dinamiche della relazione che caratterizza il triangolo scomposto che unisce Taipei, Pechino e Washington. Gli aventi diritto di voto tra i circa 24 milioni di abitanti si recherà alle urne sabato 13 gennaio 2024, ma la lunga rincorsa è già cominciata, così come le rispettive manovre dei tre attori di una vicenda che può decidere molto dei futuri equilibri globali: a livello geopolitico ma anche a livello commerciale e tecnologico.
Ho scritto un lungo pezzo sulle due visite e soprattutto come si inseriscono nel contesto delle elezioni del gennaio 2024. Tra tanti dubbi e incognite, ci sono due cose piuttosto certe. La prima: comunque vadano le due visite di Tsai e Ma e comunque vadano le elezioni, dopo il voto Xi aumenterà il pressing. Militare e strategico in caso di vittoria del DPP. Politico in caso di vittoria del KMT. La seconda: più deteriorano i rapporti tra Pechino e Washington e più si alzano i rischi per Taiwan.
Il GMD si propone come il più adatto ad alleviare le tensioni. Eric Chu ha ribadito la sua linea su Facebook: “Pro-America, amico del Giappone e in pace con la Cina”. Chu teme che il viaggio di Ma possa idealmente schierare il GMD troppo vicino a Pechino, mentre lui sta provando a presentare presso Washington il partito come l’unico garante di stabilità sullo Stretto, riaprendo anche dopo diversi anni la sede di rappresentanza negli Usa. Ne avevo scritto per ISPI già l’anno scorso.
A proposito di elezioni, anche Terry Gou è negli Stati Uniti. Il leader di Foxconn, principale fornitore di Apple per gli iPhone, spera di candidarsi alle elezioni del 2024 dopo il fallimento in vista del voto del 2020. Delle sue ambizioni politiche ho scritto nel dettaglio qui. “Evitare di dipendere economicamente dalla Cina continentale, costruire legami più stretti con gli Stati Uniti e il Giappone”, ha detto intanto Gou, che potrebbe ancora provare a mirare al via libera di Chu per la candidatura.
Gli Usa sembrano tendere sempre più dalla parte del DPP, almeno leggendo questo commento pubblicato sul sito dello US-Taiwan Business Council a margine delle due visite di Tsai e Ma.
Diplomazia e strategia: Honduras, Repubblica ceca, Filippine, Corea del Sud
Come ampiamente annunciato, domenica 26 marzo Repubblica popolare e Honduras hanno annunciato l’avvio delle relazioni bilaterali. Parlando a Taipei, il ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu ha accusato la presidente Xiomara Castro e il suo governo di aver “chiesto miliardi di dollari in ingenti aiuti economici e ha confrontato i prezzi dei programmi di assistenza forniti da Taiwan e dalla Cina”. Chiude l’ambasciata della Repubblica di Cina in Honduras, dunque, mentre diversi studenti del paese dell’America centrale saranno costretti a lasciare Taiwan perché non saranno rinnovate le borse di studio a loro dedicate.
Taipei ha invece accolto la visita della presidente della Camera bassa del Parlamento ceco, seguita da oltre 200 persone in una maxi delegazione.
Una provincia nella punta settentrionale delle Filippine potrebbe consentire alle truppe statunitensi di utilizzare due basi, costruire strutture e posizionarvi le armi, in linea con un accordo di difesa tra Manila e Washington. Manuel Mamba, governatore di Cagayan, che si trova a circa 600 chilometri da Taiwan, un potenziale punto caldo, ha dichiarato di essere contrario alla presenza di truppe straniere e ha avvertito che ospitare le forze statunitensi può rendere l’area una “calamita per un attacco in caso di scoppio di una guerra”.
Il nuovo rappresentante della Repubblica di Corea a Taipei, Lee Eun-ho, spera di facilitare una più stretta cooperazione bilaterale sui semiconduttori per migliorare la resilienza della catena di approvvigionamento globale e ritiene che il suo background in ingegneria e tecnologia possa aiutare in questo sforzo. Ma in caso di conflitto, “ci sono buone ragioni per pensare che la Corea del Sud limiterebbe il suo sostegno ad azioni vicine alla fascia bassa dello spettro”, sostiene The Diplomat.
Semiconduttori: intervista a Frank Huang (Powerchip)
“Sappiamo dall’inizio che le manovre degli Stati Uniti sui semiconduttori non sono giuste o buone per noi. Ma è difficile riuscire a dirlo esplicitamente”. Eppure Frank Huang lo dice, in una mia intervista pubblicata su La Stampa sabato 1° aprile. Huang è una delle figure iconiche del dominio taiwanese nel comparto di fabbricazione e assemblaggio dei semiconduttori. La sua creatura, la Powerchip, è una delle principali dopo il gigante TSMC. “Sì, ma il mio amico Morris Chang mica può fare tutto”, dice Huang. “Noi, per esempio, siamo specializzati sui chip per auto”.
Tra le altre cose, mi ha detto: “Il rapporto con gli Usa è vitale, ma la Cina è il nostro mercato principale. Spediamo più chip lì che in qualsiasi altro posto. Gli Usa vogliono disperatamente controllare l’industria e la nostra tecnologia. Ma Taiwan è Taiwan, non fa parte degli Stati Uniti. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, ma non siamo nemici della Cina e vogliamo continuare a farci affari”.
E poi: “L’autosufficienza è impossibile. Non bastano soldi o investimenti colossali. Per produrre i chip a 3 nanometri che fabbrichiamo qui ci vogliono circa 1500 step. Anche tra 10 anni ci sarà ancora bisogno di Taiwan”.
O ancora: “Hanno tutti bisogno di noi. Gli Usa stanno provando a far spostare i fornitori di Apple (tra cui Foxconn, sempre taiwanese) dalla Cina all’India. Ma non è così semplice. Se non spediamo più nulla in Cina non c’è più Apple. Se si blocca Taiwan si blocca tutto: iPhone, computer, auto, aerei… tutto. Pensi a che cos’è successo nel 2021 con la carenza di chip dovuta alla siccità. E poi s’immagini una guerra. Nessuno può permettere che questo avvenga, sarebbe un disastro per tutti”.
Tutto il resto nell’intervista su La Stampa.
Allo scoperto anche altri due colossi taiwanesi. Il presidente di TSMC, Mark Liu, ha intanto dichiarato che alcune restrizioni e regolamenti supplementari previsti dal CHIPS and Science Act degli Stati Uniti sono “inaccettabili” e potrebbero dissuadere potenziali partner dal richiedere la sovvenzione. “I divieti statunitensi vanno bene per i produttori di chip cinesi e male per noi”, sostiene invece MediaTek.
I funzionari taiwanesi stanno spingendo molto per ottenere un accordo per eliminare l’onere della doppia imposizione fiscale, come gli Stati Uniti hanno fatto con decine di paesi. Il Segretario al Tesoro Janet Yellen ha riconosciuto che l’assenza di tali accordi è un “problema molto significativo” per la cooperazione in materia di semiconduttori e ha detto che il Tesoro e il Dipartimento di Stato “vedranno se possiamo trovare un modo” per affrontarlo.
Altre notizie e segnalazioni
Il governo di Taiwan ha reso noto un elenco di 48 veterani militari che sono stati reclutati da Pechino per scopi di intelligence.
Venti cadaveri sono stati ritrovati sulle coste di Taiwan nelle ultime 6 settimane e la polizia ha dichiarato che 7 erano lavoratori migranti vietnamiti.
Ad Asiatica, su Radio Radicale, ho parlato con Francesco Radicioni e Valeria Manieri della visita di Xi a Mosca, ma anche del doppio viaggio di Tsai e Ma. Qui per recuperare la puntata.
Dal 31 marzo partecipo alla scuola di geopolitica “Domini”, organizzata dal centro studi Amistades. Qui per maggiori informazioni.
Di Lorenzo Lamperti
Taiwan Files – La puntata precedente
Taiwan Files – L’identikit di William Lai, nuovo leader del DPP
Taiwan Files – Le elezioni locali e l’impatto sulle presidenziali 2024
Qui per recuperare tutte le puntate di Taiwan Files
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.