ADIZ o spazio aereo? La sfiorata collisione tra navi. Lai Ching-te negli Usa ad agosto. Il nodo Stretto allo Shangri-La Dialogue di Singapore. Dubbi su Hou Yu-ih nel Gmd. Scandalo molestie nel Dpp. Intervista ad Alexander Huang. Ko Wen-je in Giappone. Il rebus dei cavi sottomarini. Tsmc grande stabilizzatore. La rassegna settimanale di Lorenzo Lamperti con notizie analisi da Taipei (e dintorni)
Le comunicazioni in inglese del ministero della Difesa di Taipei non aiutano, ma contrariamente a quanto si legge spesso (da ultimo giovedì con i 37 jet di Pechino osservati in poche ore) le manovre aeree dell’esercito di Pechino numero rilevante sono registrate nello spazio di identificazione difesa aerea taiwanese, non nello spazio aereo. Come noto, la zona di identificazione di difesa aerea (ADIZ) è un’area di spazio aereo al di fuori del territorio sovrano, all’interno della quale si richiede l’identificazione, la localizzazione e il controllo del traffico aereo nell’interesse della propria sicurezza nazionale. Lo spazio aereo è l’equivalente aeronautico delle acque territoriali (12 miglia nautiche dalle linee base costiere). La cosa fa molta differenza. Ovviamente non significa che non siano rilevanti i movimenti nell’ADIZ, ma questi avvengono regolarmente dal 2019. L’ingresso diretto nello spazio aereo sarebbe una mossa di portata e rischi molto diversi.
La posizione esatta della sfiorata collisione di sabato 3 giugno non sarebbe esattamente lo Stretto di Taiwan, ma sulla sua soglia. Lo sostiene una fonte informata dei fatti con cui ho parlato nei giorni scorsi. Resta senz’altro la valenza di quanto accaduto, che pare chiaro provenire da un’indicazione politica di gestire il transito di navi degli Stati Uniti in una certa maniera. Anche se dai delegati cinesi presenti allo Shangri-La Dialogue di Singapore emerge la convinzione che le tensioni potrebbero anche abbassarsi qualora ripartisse il dialogo sul fronte di difesa e militare. Lo stesso trattamento non sarà e non sarebbe comunque riservato alle navi di altri paesi. Che cosa può accadere nelle prossime settimane e mesi? Al netto di incidenti, resi meno impronosticabili dalla mancanza di comunicazione tra le due potenze, pare che Usa e Cina provino a tornare a parlarsi. Non tanto per un disgelo, quanto per una stabilizzazione del disaccordo, come scritto qui.
Un possibile stop al processo potrebbe arrivare ad agosto, quando con ogni probabilità il vicepresidente Lai Ching-te, candidato per il Dpp della presidente Tsai Ing-wen alle presidenziali del 2024, passerà per gli Stati Uniti sulla strada o sul ritorno dal Paraguay, dove assisterà alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente (Asunciòn è uno dei 13 paesi rimasti a mantenere relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei). Anche se a quanto risulta l’agenda sarà piuttosto di basso profilo, senza grandi eventi pubblici come quelli di Tsai durante il doppio scalo tra New York e California di aprile.
Pechino dovrebbe comunque rispondere con esercitazioni militari, anche perché agosto è la “stagione” delle grandi manovre navali. Anche se la loro portata dovrebbe essere minore rispetto a quelle di aprile scorso. E sappiamo che il Partito comunista intende regolarizzare le esercitazioni intorno a Taiwan. A seguire, ma con ogni probabilità solo nel 2024 e dopo le elezioni di gennaio (niente summit Apec, dunque), possibile altro nodo di tensione con una chiacchierata visita della stessa Tsai negli Usa, che dovrebbe avvenire prima che la presidente lasci il posto al suo successore.
Nel frattempo, gli Stati Uniti si collegheranno con le flotte di droni di Taiwan e Giappone per condividere dati in tempo reale. Un segnale di volontà di interoperabilità tra forze armate, la cui assenza è stata sinora spesso lamentata dai militari taiwanesi.
Lo Shangri-La Dialogue a Singapore
Come si è visto dallo Shangri-La Dialogue di Singapore, il principale nodo della discordia sulle due potenze, come noto, è Taiwan. “Un conflitto sullo Stretto di Taiwan sarebbe devastante, l’economia mondiale dipende dallo status quo”, ha avvisato Austin, internazionalizzando sempre di più una questione che la Cina considera interna. Austin ha garantito che gli Usa “mantengono la stessa linea, in linea con la politica dell’unica Cina e il Taiwan Relations Act. Siamo impegnati a preservare lo status quo e ci opponiamo a cambi unilaterali da entrambe le parti”. Cioè, si implica: un’azione militare cinese e una dichiarazione di indipendenza formale di Taiwan. Ma la delegazione cinese lamenta la mancata esplicitazione di questo secondo punto, che nel 2022 c’era stato ed è mancato anche nel documento finale del G7 di poche settimane fa a Hiroshima: “Non supportiamo l’indipendenza di Taiwan”. Ma Austin in realtà non cita nemmeno le esercitazioni di Pechino intorno a Taiwan dopo la visita di Pelosi e quelle più recenti. Nel 2022 aveva invece citato le manovre aeree e navali di Pechino, mettendo in dubbio la volontà cinese di mantenere lo status quo e collegando direttamente il fronte ucraino a quello taiwanese. Non sfugge questo elemento ad alcuni osservatori cinesi presenti a Singapore, che descrivono l’intervento come “meno duro” del precedente, “segnale che vogliono provare a parlare”.
Quando ha tenuto il suo discorso, Austin ancora non sapeva della collisione sfiorata tra una nave da guerra cinese e un cacciatorpediniere americano nello Stretto, un segnale che Pechino intende reiterare con maggiore forza la sua pretesa di sovranità. Cercando di trasformare sempre più lo Stretto in una sorta di “mare interno”, come già si evinceva dalle recenti esercitazioni militari svolte dopo l’incontro in California tra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e lo speaker del Congresso americano Kevin McCarthy. Ma il capo del Pentagono sostiene di essere convinto che un conflitto “non è imminente, né inevitabile”. Ma lancia un appello al dialogo: “Il momento giusto per parlare è qualsiasi momento, il momento giusto per parlare è ogni momento, il momento giusto parlare è adesso”. E ancora: “Più parliamo e più possiamo evitare incidenti che rischiano di portarci a un conflitto”.
l giorno dopo il discorso di Austin, è stata la volta della risposta di Li Shangfu, al suo primo discorso da ministro di fronte a una platea internazionale. Li ripete l’impegno a uno sviluppo pacifico, ma ribadisce che la Cina “non esiterà a difendere i legittimi interessi”. E al centro di questi viene citata Taiwan. Anche qui, discorso in linea col 2022: reiterazione sovranità, opposizione a “interferenze esterne”, critiche esplicite al DPP (il partito di maggioranza) sulla “negazione del consenso del 1992” e sforzi per “cancellare l’identità cinese di Taiwan”. La “riunificazione” è un “processo storico che non può essere fermato” e per raggiungerlo come sempre non viene escluso l’utilizzo della forza. “Se qualcuno prova a separare Taiwan dalla Cina, il nostro esercito non esiterà un secondo a intervenire”. Tutte cose già dette dal predecessore Wei Fenghe nel 2022, ma anche qui l’intervento è un po’ più breve. Manca per esempio questo passaggio in riferimento al DPP: “In quanto elemento dei gruppi stranieri anti-cinesi, essi saranno saranno solo usati e poi abbandonati dai loro padroni”. Il passaggio più preoccupante è però quello sull’incidente sfiorato sullo Stretto, di cui si è avuta notizia poche ore prima del discorso di Li. “Non si tratta di passaggi innocenti, alcuni paesi usano la libertà di navigazione come pretesto per esercitare egemonia di navigazione”, ha detto il ministro della Difesa in risposta a delle domande dei delegati. Come evitare incidenti? “Non si navighi troppo vicino ai territori altrui”. Questo commento lascia presagire che si possano ripetere i rischi di incidenti durante i passaggi sullo Stretto. A Singapore dai delegati di diversi paesi emerge preoccupazione su questa possibilità, altri collegano la situazione alla mancanza di dialogo, implicando che una ripresa delle comunicazioni Usa-Cina porterebbe a una gestione diversa da parte di Pechino di questi passaggi.
Ne ho scritto e parlato nel dettaglio qui, qui e qui. Ne ho parlato poi anche ad Asiatica.
L’intervista a Sullivan e i viaggi di Kritenbrink e Rosenberger
Domanda: “Se Taiwan dichiarasse l’indipendenza che fareste?” Risposta: “Non supportiamo l’indipendenza di Taiwan. Ci sforziamo e ci sforzeremo a che non ci siano cambi unilaterali allo status quo sullo Stretto, né da parte di Taiwan né da parte della Repubblica popolare cinese”. Parlando alla Cnn, Jake Sullivan dice esplicitamente quello che non ha detto Lloyd Austin allo Shangri-La Dialogue, o Joe Biden al G7. Un tentativo di rassicurare Pechino che la posizione americana non è cambiata e che la politica dell’unica Cina resterà in vigore, accompagnata dal Taiwan Relations Act (che Pechino non ha mai accettato). Sullivan ne dà una spiegazione sofisticata e approfondita, come accade raramente: “La politica dell’unica Cina non è un modello di chiarezza, ma nella pratica ha portato a decenni di pace sullo Stretto. Noi vogliamo la continuazione di questa stabilità anche nei prossimi decenni”. Se davvero le due potenze cercano la stabilizzazione del disaccordo, sono buone basi da cui partire.
Le parole di Sullivan, che ha auspicato un prossimo incontro tra Biden e Xi Jinping, arrivano mentre il responsabile per gli affari di Asia orientale e Pacifico, Daniel Kritenbrink, è a Pechino, dove ha incontrato il viceministro degli Esteri Ma Zhaoxu. Colloqui “franchi, costruttivi e fruttuosi” sul “miglioramento delle relazioni sino-americane e sulla corretta gestione delle differenze”, ha fatto sapere il ministero cinese in un breve comunicato. Pechino sostiene di aver ribadito la sua “posizione solenne su Taiwan e su altre importanti questioni di principio”. Il Dipartimento di stato replica di aver chiarito che “gli Stati uniti competeranno vigorosamente e difenderanno gli interessi e i valori americani”. Come ha detto Sullivan, “intensa competizione e intenso dialogo”. Contestualmente, la presidente dell’American Institute in Taiwan, Laura Rosenberger, è a Taipei dove incontrerà i tre candidati alle presidenziali: Lai Ching-te, più radicale dell’attuale presidente Tsai Ing-wen, Hou Yu-ih del Guomindang e Ko Wen-je del Taiwan People’s Party. Una sorta di audizione per capire programmi e intenzioni.
Ne ho scritto qui.
Hou Yu-ih, il candidato del Guomindang alle elezioni del 2024
7 aprile 1989. A Taiwan, la legge marziale imposta da Chiang Kai-shek è stata revocata meno di due anni prima, dopo quasi 40 anni. Il Guomindang, al potere come partito unico, rivendicava ufficialmente tutto il territorio della Cina continentale. Solo 2 anni dopo sarebbero state abolite le “disposizioni temporanee per il periodo di ribellione comunista”. E solo nel 1996 si sarebbero svolte le prime elezioni presidenziali libere. Quel 7 aprile 1989 è il 71esimo giorno di quarantena auto imposta da Deng Nan-jung, editore filo indipendentista. Deng è accusato di sedizione per aver pubblicato sulla sua rivista Freedom Era Weekly una bozza di “costituzione della Repubblica di Taiwan”. Un affronto non solo per Pechino, ma anche per il Gmd che non ammette pulsioni indipendentiste che superino la cornice della Repubblica di Cina, il nome con cui ancora oggi Taiwan è indipendente de facto. Quel 7 aprile 1989 la polizia di Taipei si reca all’appartamento di Deng per arrestarlo. Lui si auto immola dandosi fuoco.
A capo della spedizione delle autorità c’era Hou Yu-ih, all’epoca capo della Divisione investigativa criminale del Dipartimento di polizia di Taipei. Da qualche giorno, Hou è il candidato ufficiale del Gmd in vista delle cruciali presidenziali di gennaio 2024. E la vicenda di Deng torna a essere nominata. Una storia controversa in una carriera invece piena di punti luminosi per l’uomo che, qualora eletto, potrebbe diventare il nuovo “grande stabilizzatore” tra le due sponde dello Stretto di Taiwan. Il Gmd ha annunciato la scelta di Hou dopo un procedimento inusuale. Niente primarie aperte ai sostenitori, ma un processo decisionale condotto da un comitato interno nominato ad hoc dal presidente del partito, Eric Chu. In corsa c’era anche Terry Gou, il patron della Foxconn, una delle aziende taiwanesi più note al mondo.
Ne ho scritto nel dettaglio qui.
Ma Hou sembra in difficoltà nella campagna e ci sono persino voci di chi all’interno del Gmd vorrebbe un cambio di candidato. Brutto segnale nella presenza di Lai e Gou a Kinmen a discutere di relazioni intrastretto, con Hou assente.
Intervista ad Alexander Huang, direttore del dipartimento internazionale del Gmd e rappresentante del partito negli Usa
“Gli Stati Uniti hanno perso la loro posizione di arbitro una volta coinvolta nella competizione strategica con la Cina continentale”, mi dice Huang in un’intervista pubblicata qui. “Taiwan, che si trova tra le due potenze, si trova in una posizione scomoda, con la tremenda pressione di essere spinta a scegliere da che parte stare”. Secondo Huang, “la postura corretta per Taipei sarebbe quella di impegnarsi a fondo per mantenere aperti i canali di comunicazione sia con Washington che con Pechino, di adottare una politica ottimistica per i propri interessi basata su una valutazione accurata dell’intelligence. E così guadagnare tempo per la pace e la sopravvivenza”, sostiene Huang.
L’ex presidente del Gmd, Ma, ha dipinto le prossime elezioni come una scelta “tra guerra e pace”, indicando la possibile conferma del Dpp come un potenziale acceleratore per un conflitto sullo Stretto. Lai Ching-te, attuale vicepresidente e candidato del partito di maggioranza (che non può ricandidare Tsai per un terzo mandato), ha risposto descrivendo le elezioni come una scelta “tra totalitarismo e democrazia”, alludendo al fatto che una vittoria del Gmd porterebbe verso una “unificazione”.
Huang non arriva alla definizione di Ma, però sottolinea che “Anche se ha gradualmente modificato le sue dichiarazioni più volte e ha cercato di assicurare che non si sarebbe discostato dalla posizione di Tsai, la radicata convinzione personale di Lai di una Taiwan indipendente de jure è nota”. E sugli scenari post voto prevede: “Una vittoria del Gmd ridurrebbe in larga misura la tensione attraverso lo Stretto”. Ma aggiunge: “La tensione attraverso lo Stretto di Taiwan è stata altalenante per decenni e Pechino non rinuncerà al suo obiettivo di unificazione né con i negoziati né con la forza. Nei prossimi anni, le relazioni tra le due sponde dello Stretto saranno ovviamente influenzate dalla competizione strategica tra Washington e Pechino, ma anche dalla saggezza e dalla capacità di Taiwan di gestire questa difficile relazione”.
Dibattito politico tra energia, molestie sessuali e inviti a cena
Tra i temi politici in vista delle elezioni si parla molto di energia. L’attuale governo sta valutando la possibilità di mantenere le centrali nucleari in stand-by in caso di emergenza, segnalando un allentamento della politica di eliminazione graduale della fonte energetica. Il Gmd da sempre più convinto sul nucleare. Tsai ha reiterato gli obiettivi di emissioni zero, ma anche AmCham (la Camera di commercio americana a Taipei) ha lamentato un programma concreto su un argomento ritenuto cruciale anche sul fronte della sicurezza.
Ha fatto discutere la frase di Lai, che ha segnalato il desiderio di una cena con Xi Jinping, aggiungendo che forse aiuterebbe a “calmarlo”. Offerta respinta al mittente da Pechino per il mancato riconoscimento del “consenso del 1992”.
Wang Huning, membro del Comitato permanente del Politburo, ha incontrato una delegazione guidata da Wu Cherng-dean, a capo del Nuovo Partito di Taiwan che sostiene l’unificazione con la Cina continentale. Una forza davvero molto residuale.
Il terzo incomodo Ko Wen-je
Abbiamo già parlato su Taiwan Files di Ko Wen-je, terzo incomodo alle elezioni del 2024. Molto attivo, l’ex medico ed ex sindaco di Taipei è stato in Giappone dopo essere stato negli Stati Uniti.
Ko, in ascesa nei sondaggi per la sua candidatura alla presidenza, ha dichiarato che non incontrerà Xi Jinping solo per il gusto di farlo e che i colloqui devono avere un obiettivo chiaro. Ko ha detto che “il governo di Xi in Cina non durerà per sempre“, aprendo al dialogo e riproponendo la visione di una Taipei che può in qualche modo aiutare la “democratizzazione” della Repubblica Popolare, mentre mantiene aperto il dialogo.
Come sempre, Ko è rimasto evasivo sul “consenso del 1992“, di fronte a domande che sottolineavano le somiglianze tra la sua posizione e quella del Gmd. Ma ha chiesto a Pechino di chiarire prima la sua interpretazione sul celeberrimo accordo.
Qui il suo discorso completo di fronte al club dei corrispondenti stranieri in Giappone.
I cavi sottomarini
Chunghwa Telecom comunica che uno dei suoi cavi internet sottomarini che collegano le isole Matsu a Taiwan è stato danneggiato in maniera accidentale da una nave cargo. È il 2 febbraio scorso. Passano altri sei giorni. L’8 febbraio, la stessa compagnia di telecomunicazioni taiwanese è costretta a comunicare la recisione di un altro dei suoi cavi sottomarini. Sempre nei pressi delle isole Matsu, un piccolo arcipelago che si trova a una manciata di chilometri dalle coste del Fujian cinese, ma è amministrato da Taipei.
Il caso passa per lo più inosservato a livello globale. Si prova a limitare l’impatto sulla connessione internet sui poco meno di 13mila abitanti dell’arcipelago grazie alle strutture di trasmissione a microonde di riserva, ma le conseguenze sono rilevanti, anche a causa di una congestione della rete durante i lavori di riparazione che terminano a fine marzo. Vale a dire dopo oltre 50 giorni. Secondo le testimonianze dei residenti, l’invio di un messaggio di testo poteva richiedere 15-20 minuti, mentre era quasi impossibile accedere ai siti web, dalle piattaforme di e-commerce ai siti di prenotazione alberghiera. Con una ovvia ricaduta su molti settori economici, dal turismo alla logistica quotidiana delle imprese locali.
Alle Matsu e a Taiwan c’è chi ha suggerito l’ipotesi che non si sia trattato di un incidente, ma che le navi della Cina continentale abbiano deliberatamente reciso i cavi sottomarini. Accuse che non sono state commentate da Chungwa Telecom, né suffragate da prove concrete. Ma il tema esiste eccome. La recisione dei cavi sottomarini in un ipotetico scenario di azione militare o blocco navale è considerata una possibilità da tenere in seria considerazione.
Il quadro è stato spiegato bene da Wen Lii, responsabile del Partito progressista democratico alle Matsu, su The Diplomat: “Dato il ruolo di Taiwan come potenza tecnologica, soprattutto nella produzione di microchip, se dovesse essere tagliata fuori da Internet, il mondo intero soffrirebbe di interruzioni su larga scala nelle catene di approvvigionamento globali. […] In uno scenario di guerra, questo avrebbe anche un impatto sulla capacità di Taiwan di comunicare le proprie esigenze al mondo esterno, nonché sulla capacità dei residenti di ricevere informazioni di base”.
L’ammiraglio Chen Yeong-kang, ex comandante della marina di Taipei ed ex viceministro della Difesa, mi ha dichiarato in una recente intervista pubblicata su La Stampa, in riferimento alle future strategie di Pechino per ottenere la “riunificazione” o comunque l’apertura di un confronto politico: “Immaginiamoci un blocco con 24 milioni di persone senza connessione e rifornimenti per giorni o settimane. Pensare che a quel punto venga chiesto al governo di aprire un negoziato non è impossibile”.
La vicenda delle Matsu sta portando Taipei a interrogarsi su come fare per provare a proteggere la propria connessione internet. Alle Matsu, la lunga attesa per la riparazione dei cavi si è verificata in parte anche perché Taiwan non dispone di proprie navi dedicate allo scopo. Il governo di Taipei si sta muovendo per dotare Chungwa Telecom di una nave per la riparazione e nelle scorse settimane ha presentato una bozza di emendamento alla legge sulla gestione delle telecomunicazioni che prevede l’ampliamento la protezione dei cavi marini imponendo una pena detentiva fino a dieci anni e pesanti multe pecuniarie fino a 100 milioni di dollari taiwanesi per il danneggiamento dei cavi marini. Nel frattempo, il ministero degli Affari digitali guidato da Audrey Tang sta pensando allo sviluppo di tecnologie satellitari di backup. Ma ci vorrà tempo e il successo è tutt’altro che assicurato.
Ne ho scritto nel dettaglio qui.
Economia, semiconduttori e tech
I rappresentanti di Taiwan e degli Stati Uniti hanno firmato un primo accordo nell’ambito di una più ampia iniziativa commerciale bilaterale negli Stati Uniti, ha dichiarato l’Ufficio per i negoziati commerciali di Taipei. Il nuovo accordo è stato firmato nel corso di una cerimonia tenutasi presso la sede dell’American Institute in Taiwan (AIT) a Washington, un anno dopo il lancio dell’Iniziativa USA-Taiwan sul commercio del XXI secolo.
Visite a Taiwan per i manager di Nvidia e di JPMorgan.
Come chi legge Taiwan Files sa, per Tsmc le fabbriche in Arizona non sono solo un’opportunità. Il più grande fabbricatore di chip a contratto del mondo, ha rilasciato una dichiarazione sull’ambiente di vita che offre ai suoi dipendenti, in risposta a un articolo di Fortune del fine settimana in cui sono stati citati diversi ex e attuali dipendenti negli Stati Uniti che si lamentavano della cultura aziendale “brutale” dell’azienda. Nella dichiarazione, Tsmc ha affermato che negli ultimi due anni l’orario medio di lavoro non ha superato le 50 ore settimanali, con poche eccezioni, come quando l’azienda introduce un nuovo processo tecnologico o accelera il ritmo di costruzione di un nuovo impianto. In queste situazioni, viene rispettato un tetto massimo di 60 ore lavorative settimanali.
Sempre come chi legge Taiwan Files sa, i colossi di microchip taiwanesi non sono solo colossi di microchip, ma anche “ambasciatori” commerciali e diplomatici. Nella riunione annuale con gli shareholders, l’amministratore delegato Mark Liu ha difeso i piani di espansione all’estero e ha dichiarato che proprio Tsmc può aiutare a stabilizzare le relazioni tra Usa e Cina (mantenendo, ovviamente, aperto il canale di chip sullo Stretto).
Le aziende tecnologiche temono la guerra ma faticano a lasciare Taiwan, scrive Nikkei Asia, che analizza nel dettaglio come Taipei sia diventata indispensabile per l’economia globale, soprattutto sul fronte tecnologico.
Huawei ha chiuso il suo ultimo centro a Taipei.
Sondaggi su cinesi ed europei, il ministro degli Esteri Wu in Europa
La Cina percepisce l’intervento militare internazionale a Taiwan e il confronto con gli Stati Uniti come le principali minacce alla sicurezza del paese, oltre alla pandemia, secondo uno studio nazionale.
Secondo un nuovo studio, la maggioranza degli europei preferirebbe che i propri paesi rimanessero neutrali nel caso in cui Stati Uniti e Cina entrassero in guerra per Taiwan. Solo il 23% dei cittadini di 11 Paesi vorrebbe schierarsi dalla parte degli Stati Uniti, mentre il 62% vorrebbe rimanere neutrale. Il sondaggio fa parte di uno studio dell’European Council on Foreign Relations, che mostra come molti cittadini europei (43%) continuino a considerare la Cina come un partner necessario con cui vorrebbero cooperare, più di qualsiasi altra categoria.
Il ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Wu effettuerà una visita in Europa nei prossimi giorni. Wu sarà a Bruxelles e poi parteciperà a una conferenza sulla sicurezza a Praga il 14 giugno e dovrebbe parlare subito dopo l’apertura dell’evento da parte del presidente ceco Petr Pavel. Si tratterebbe di un evento molto insolito, dato che i leader europei generalmente non condividono il palco con alti funzionari taiwanesi.
Segnalazioni
Di Lorenzo Lamperti
Taiwan Files – La puntata precedente
Il punto verso il voto del 2024
Taiwan Files – L’identikit di Hou Yu-ih, candidato presidente del GMD
Taiwan Files – L’identikit di William Lai, candidato presidente del DPP
Taiwan Files – Le elezioni locali e l’impatto sulle presidenziali 2024
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.