Estratti dal reportage per Internazionale dall’arcipelago delle Matsu e dall’intervista a Wu Rwei-ren, politologo dell’Academia Sinica e primo taiwanese a rischiare una condanna per la Hong Kong National Security Law. Più varie brevi. La rassegna di Lorenzo Lamperti da Taipei (e dintorni)
Questa settimana sono stati pubblicati due contenuti ai quali tengo molto. Il primo è il reportage dalle Isole Matsu per Internazionale, il secondo è la vicenda (con lunga intervista su il Manifesto) a Wu Rwei-ren, influente storico dell’Academia Sinica di Taipei e primo taiwanese a rischiare una condanna per effetto della Hong Kong National Security Law. Su Taiwan Files di questa settimana un estratto di entrambi i contenuti. Nelle prossime settimane verranno invece pubblicate le interviste integrali a Chang Longde (segretario generale Guomindang del governo locale alle Matsu), Lii Wen (responsabile del DPP di Tsai Ing-wen nell’arcipelago) e allo stesso Wu Rwei-ren, che oltre che a raccontare la sua storia ha analizzato a fondo il percorso di costruzione identitaria taiwanese.
Le Isole Matsu – qui il reportage completo da Internazionale
“Combattere per la vittoria finale”, “Riprendere il continente”. Gli slogan dell’epoca di Chiang Kai-shek sono ancora lì, sugli edifici in marmo e granito del villaggio Qinbi, da dove un tempo venivano diffusi anche attraverso una stazione di trasmissione rivolta ai nemici. “Sento questi spari da quando sono piccolo, perché dovrei essere preoccupato?”, dice il signor Chen mentre fuma una sigaretta sul belvedere di fronte all’isola di Gueishan. In sottofondo il rumore dei colpi di un’esercitazione militare.
Siamo a Beigan, una delle cinque isole abitate dell’arcipelago delle Matsu, nello stretto di Taiwan. In acqua si vede passare una decina di navi commerciali cinesi. In cielo, poche settimane fa, un aereo militare di Pechino è passato molto vicino all’isola di Dongyin, il territorio più settentrionale amministrato da Taipei. Dall’altra parte dello stretto di Formosa, che in questo punto è largo non più di una ventina di chilometri, oltre un velo di foschia s’intravede la provincia cinese del Fujian.
Le Matsu non sono amministrate dalla Repubblica popolare cinese, ma non siamo nemmeno esattamente a Taiwan. L’arcipelago è la manifestazione più concreta della Repubblica di Cina, quella che il nazionalista Chiang Kai-shek trasferì a Taiwan nel 1949. Oltre alle statue della dea dei mari Mazu (o Matsu), che dà il nome all’arcipelago, ci sono anche quelle del leader del Kuomintang, che al contrario di quel che accade a Taiwan, qui non sono rimosse e abbandonate in qualche parco di periferia. “Perché dovremmo toglierle? Gli abitanti di Matsu non odiano Chiang e la storia non si cancella. Senza contare che sono anche un’attrazione turistica”, dice Chang Longde, segretario generale del governo locale, guidato dal Kuomintang. Il partito nazionalista cinese qui domina ininterrottamente da decenni ed è per ora rimasto immune alla crisi d’identità che sta vivendo a Taipei e dintorni.
Le isole Matsu, bersaglio dei bombardamenti di Mao Zedong negli anni cinquanta e sessanta, hanno sempre fatto parte della Repubblica di Cina dalla sua fondazione (1912) e non sono mai state colonizzate dal Giappone. E l’arrivo di Chiang dopo la sconfitta nella guerra civile non è stato vissuto come un’occupazione. “La popolazione di Matsu si è sempre sentita appartenente a una sola famiglia, quella cinese”, spiega Chang. Del resto l’arcipelago fa parte della contea di Lienchiang, il cui territorio si divide tra una parte amministrata dalle Matsu (e dunque da Taiwan) e una parte amministrata dal Fujian (quindi dalla Repubblica popolare).
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“Repubblica di Cina” è ancora il nome ufficiale che garantisce l’indipendenza di fatto di Taipei, che la popolazione identifica sempre di più con il nome di una forza d’occupazione. Un rimasuglio storico di cui sbarazzarsi nel percorso della costruzione dell’identità taiwanese. Perfino gli Stati Uniti in passato avevano avuto la tentazione di sbarazzarsi di questo primo cordone di sicurezza. Il destino delle Kinmen e delle Matsu fu un tema importante della campagna elettorale delle presidenziali del 1960. In quell’occasione, John Fitzgerald Kennedy cambiò il suo atteggiamento e cominciò a sostenere che lasciare quei due arcipelaghi avrebbe lanciato un messaggio sbagliato a Mao, facendogli credere che gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti in difesa di ChiangKai-shek in caso di aggressione.
Non la pensa così Lii Wen, il rappresentante locale del Dpp. “Sostenere la nostra sovranità non significa trovare le differenze tra la cultura taiwanese e quella cinese. Dobbiamo aumentare il senso di appartenenza non promuovendo l’uniformità, ma la diversità”, sostiene. “Il Partito comunista continua a ripetere che chiunque s’identifichi con l’eredità culturale cinese deve stare con il governo di Pechino, ma io non sono d’accordo. L’esistenza della Repubblica di Cina e la stessa esistenza di queste isole dimostra il contrario. Sentire di appartenere alla sfera culturale cinese, non significa, per i taiwanesi, e neppure per la popolazione di Matsu, voler rinunciare a vivere in una democrazia per finire sotto un governo autoritario”.
Norme, non solo armi: l’arsenale cinese su Taiwan e la vicenda di Wu Rwei-ren – qui l’articolo completo su il Manifesto
“Vogliono fare di me un simbolo di tutti i taiwanesi e di tutti gli accademici”. Parlando nel suo studio all’Academia Sinica, Wu Rwei-ren dice di non avere paura (“non credo che verranno qui a rapirmi”) ma non nasconde l’inquietudine per essere il primo taiwanese a rischiare la condanna ai sensi della legge di sicurezza nazionale di Hong Kong.
Mentre a favore di radar e retorica vengono mostrate le armi, e mentre dopo l’invasione russa in Ucraina si rincorrono le previsioni temporali di un’ipotetica invasione su larga scala, la vicenda di Wu è fondamentale per capire come la Repubblica Popolare Cinese stia affilando l’arsenale normativo a disposizione per provare a soggiogare Taiwan senza l’utilizzo della forza.
Storico e politologo, Wu studia da decenni pensiero politico e nazionalismo comparato. Dopo aver lavorato negli Stati Uniti e in Giappone ha fatto ritorno a Taipei dove lavora presso l’istituto di ricerca nazionale della Repubblica di Cina. Tra i suoi studenti anche tanti attivisti del movimento dei girasoli (compreso il leader Lin Fei-fan), l’esperienza di protesta con istanze identitarie che ha rivitalizzato l’allora smarrito Partito democratico progressista targato Tsai Ing-wen.
Poco più di un mese fa, il media di Hong Kong pro Pechino Ta Kung Pao ha scritto che Wu ha violato la legge sulla sicurezza nazionale, lo strumento normativo entrato in vigore nel 2020 che ha di fatto prepensionato il modello “un paese, due sistemi” e ha portato allo smantellamento dell’opposizione politica dell’ex colonia britannica.
Da lì è partita una campagna mediatica nei confronti di Wu che potrebbe sfociare in un processo e in una condanna da 10 a 30 anni di carcere per sovversione e sedizione. Il motivo? Un articolo dal titolo “Per una rivoluzione incompiuta” sui movimenti di protesta di Hong Kong, tra i vincitori dello Human Rights Press Awards organizzato dal Foreign Correspondents’ Club.
“Ho iniziato a essere coinvolto nelle vicende di Hong Kong poco prima della rivoluzione degli ombrelli”, racconta Wu. “Il movimento studentesco si interessò a me perché sono il traduttore in mandarino di Imagined Communities di Benedict Anderson (sociologo irlandese nato in Cina di approccio marxista e autore di un volume considerato imprescindibile sul tema del nazionalismo, ndr). Ho visto coi miei occhi un malessere localista e un patriottismo rudimentale diventare un vero e proprio sentimento nazionalista. Un fenomeno che ho commentato e analizzato in un articolo intitolato The discourse on Hong Kong nationalism“.
Wu sostiene che “la parola ‘nazionalismo’ non esisteva in riferimento a Hong Kong prima del 2014. Ad aiutarne la diffusione sono state la mancata comprensione delle proteste da parte del Partito comunista. L’autonomia di Hong Kong si è sempre basata solo sulle parole: se Xi Jinping avesse fornito garanzie legali in senso federale di quel sistema avrebbe probabilmente circoscritto le proteste diminuendo lo slancio nazionalista di cui si sono nutrite per l’aggressività di Pechino”, sostiene Wu. “Scrivendo articoli non mi sono aggregato al movimento di protesta, ho semplicemente analizzato quanto stava accadendo come il mio lavoro richiede. Anzi, Xi avrebbe potuto cogliere qualche consiglio”.
Alle autorità, invece, i suoi articoli non sono piaciuti. Nonostante questo, gli è stato consentito più volte di tornare a Hong Kong per presenziare a conferenze. Perché dunque accusarlo ora, all’improvviso? E perché accusare proprio lui? “Ritengo ci siano tre risposte a questa domanda”, dice Wu. “La prima riguarda il contesto di Hong Kong.
Dopo aver smantellato l’opposizione politica e quella civile, le autorità vogliono completare la stretta sui media. Il mio caso verrà utilizzato per colpire il club dei giornalisti di Hong Kong e il Foreign Correspondents’ Club. La seconda riguarda tutti gli accademici, che saranno il prossimo target del governo locale e di quello di Pechino. Incriminando me si vogliono intimidire professori, ricercatori e istituti di tutto il mondo che decidono di occuparsi di temi legati a Hong Kong e, più in generale, di temi legati alla Cina. La terza riguarda invece il mio passaporto: colpendo me si colpisce tutta la popolazione taiwanese. Non credo pensino di impaurire o ridurre al silenzio me, per me ormai è troppo tardi, ma ritengono di poterlo fare con tanti altri taiwanesi”, prosegue Wu.
“L’Academia Sinica ha fatto qualcosa di inusuale: ha preso immediatamente le mie difese con una dichiarazione molto netta a difesa della libertà di espressione. Ma nell’ultimo paragrafo si chiedeva a tutte le istituzioni accademiche taiwanesi di aggregarsi e firmare pubblicamente quel documento. Sa in quante lo hanno fatto? Zero. Università e accademie hanno diversi progetti di cooperazione con istituti cinesi, in molti ricevono dei fondi: è difficile che prendano una posizione pubblica che possa mettere a rischio i loro rapporti”, spiega Wu.
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Secondo Wu, Taiwan ha superato il “punto di non ritorno” a gennaio 2020, con la seconda elezione di Tsai Ing-wen. “Così come è stato il Partito comunista a fomentare il nazionalismo di Hong Kong, allo stesso modo è stato Xi a salvare Tsai. A fine 2018 lei e il suo governo erano in grande crisi. Ma nel discorso di capodanno 2019, Xi ha spiegato che per Taiwan esiste una sola ipotesi: un paese, due sistemi. Visto quanto accaduto a distanza di pochi mesi a Hong Kong, quelle parole hanno decretato la fine delle possibilità di qualsiasi riavvicinamento politico. Taiwan si sta muovendo su un terreno sempre meno ambiguo sul proprio status e sulla propria identità, seppure in modo saggiamente molto cauto e pragmatico”, sostiene Wu.
“Fare passi avventati e recidere il legame con la sfera storico-culturale cinese, come per esempio cambiare il nome Repubblica di Cina, avrebbe conseguenze non sul piano esterno con la prevedibile reazione di Pechino ma anche sul piano interno. Una parte della popolazione taiwanese non vuole perdere quel legame: seppure non si opponga all’indipendenza de facto percepisce ancora l’appartenenza al mondo cinese. Se non dal punto di vista politico, quantomeno da quello culturale ed emotivo. Negli anni Novanta il processo di democratizzazione di Taiwan è stato costruito proprio sul compromesso tra l’élite politica cinese del Guomindang e la società taiwanese. Lee Teng-hui è stato l’anello di congiunzione che ha consentito il superamento delle tensioni interne. Ora la composizione politico-sociale è cambiata ma Taiwan non si può permettere un ritorno a turbolenze interne in grado di indebolirla e rallentare il suo percorso”.
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Taipei-Pechino-Washington. Manovre militari e Oms
Anche durante la settimana appena trascorsa sono proseguite le manovre contrapposte sullo Stretto. Al via le maxi esercitazioni militari annuali di Taiwan. L’esercito prende ispirazione dal metodo di resistenza dell’Ucraina per rafforzare le proprie capacità di combattimento asimmetrico. Alle “lezioni ucraine” è quasi interamente dedicata la scorsa puntata di Taiwan Files.
Pechino protesta per il nuovo passaggio di una nave militare americana nello Stretto.
Ma la metà dei taiwanesi non crede che gli americani manderebbero truppe in caso di invasione.
Il Partito comunista cinese avvisa Taipei che se continuerà a comprare armi dagli Usa sarà trascinata in una guerra e alimenta la sua narrativa su Taipei rimarcando ancora una volta le differenze con la guerra in Ucraina e l’invasione russa. “Se prendiamo Taiwan con la forza non sarebbe un’invasione, esiste una sola Cina”. Stessa linea del messaggio inviato all’Economist da Zong Rong, portavoce dell’ambasciata cinese nel Regno Unito.
Effetto Shanghai: Taiwan abbandona i QR code
-sanitario, visto che con Omicron solo una parte minima dei contagiati ha sintomi di rilievo
-economico, visto che ci si aspetta un impatto su vari settori dal lockdown di Shanghai (la Cina resta di gran lunga il primo partner commerciale di Taipei)
-politico. L’inefficienza delle restrizioni di Shanghai ha dato la spinta all’amministrazione Tsai per distanziarsi dall’approccio del Pcc senza contraccolpi significativi su opinione pubblica.
Semiconduttori
Uno studio pubblicato il 25 aprile dalla Federazione delle industrie sudcoreane mostra che tra il 2018 e il 2021 Pechino ha accresciuto l’acquisto di semiconduttori taiwanesi. Non una sorpresa, come scritto mesi fa qui in un approfondimento sul ruolo anche “diplomatico” dei semiconduttori nei rapporti Pechino-Taipei. O ancora prima (agosto 2021) qui, sui movimenti in reazione al ban trumpiano su Huawei e Tsmc.
Il ruolo dell’industria dei semiconduttori taiwanesi, come già raccontato tante volte, è cresciuto ulteriormente negli ultimi anni. Da una parte le aziende cinesi hanno intensificato le importazioni per paura di ban sempre più stringenti. Dall’altra Usa, Giappone, India ed Europa fanno di tutto per portarsi a casa uno stabilimento di Tsmc o di altri colossi taiwanesi.
Per restare sull’asse Taipei-Parigi, ma stavolta aggiungendoci anche l’Italia, mercoledì 27 aprile Giuseppe Izzo ha ricevuto la medaglia di cavaliere dell’ordine nazionale al merito della Repubblica Francese. Izzo, da oltre 30 anni a Taiwan, è il general manager di STMicroelectronics Taiwan e il vice presidente della Camera di Commercio Europea a Taiwan. L’onorificenza gli è stata consegnata da Jean François Casabonne-Masonnave, rappresentante francese a Taipei. Qui si può recuperare una mia intervista a Izzo per Wired sui semiconduttori e sulle nuove tecnologie a cui lavora Taiwan.
Di Lorenzo Lamperti
Taiwan Files 23.04.22 – Lezioni ucraine
Taiwan Files 16.04.22 – Negoziazioni, giustificazioni, esercitazioni
Taiwan Files 09.04.22 – Tra Lee Teng-hui e Nancy Pelosi
Taiwan Files 02.04.22 – Tsunami e cambiamento climatico
Taiwan Files 19.03.22 – Biden/Xi, manovre militari e normative
Taiwan Files 07.03.22 – Pompeo a Taipei e Taiwan nella “nuova era”
Taiwan Files 28.02.22 – Taipei non è Kiev, neanche post invasione russa
Taiwan Files 19.02.22 – La prospettiva taiwanese sull’Ucraina
Taiwan Files 12.02.22 – Pechino vista da Taipei
Taiwan Files 05.02.22 – Le Olimpiadi secondo Taiwan
Taiwan Files 29.01.22 – La Cina osserva la Russia in Ucraina, ma Taipei non è Kiev
Taiwan Files 22.01.22 – Il multiverso di Taiwan. Intervista ad Audrey Tang
Taiwan Files 15.01.22 – Commercio, sicurezza nazionale, sondaggi Chengchi, chip, diritti civili
Taiwan Files 08.01.22 – Arcobaleni, zero Covid, estradizioni, Xi/Tsai
Qui per recuperare tutte le puntate di Taiwan Files
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.