Taiwan Files – Tra Chiang e congresso Dpp, tra Zero Day e nucleare

In Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Lai Ching-te regola i conti al congresso del Dpp. E il suo rivale va in carcere. Addio alla guardia d’onore davanti alla statua del generalissimo a Taipei. Direttiva di Pechino sulla pena di morte per i secessionisti radicali. Trump avvisa Taiwan in vista delle elezioni Usa. Esercitazioni Han Kuang e la serie tv finanziata da governo e dal controverso ex magnate dei chip Tsao per spaventare i taiwanesi. Si spegne tra i dubbi il penultimo reattore nucleare dell’isola, wafer taiwanesi per chip in Russia. La rassegna di Lorenzo Lamperti con notizie e analisi da Taipei (e dintorni)

Politica interna

Sono trascorsi i primi due mesi della presidenza di Lai Ching-te. Non sono stati semplici. All’interno, Lai è stato impegnato al congresso del Partito progressista democratico (Dpp), in cui ha parlato di “sovranità” e ha imposto la sua linea conquistando un’ampia percentuale di poltrone. L’era della gestione condivisa di Tsai Ing-wen, meno legata alla logica delle fazioni come invece lo è storicamente Lai con la sua New Tide, pare finito.

Si parla poi parecchio del caso di Cheng Wen-tsan, ex vicepremier e sindaco di Taoyuan arrestato per corruzione, con rifiuto di rilascio su cauzione.  I suoi diritti di partito sono stati sospesi dal Dpp per tre anni e, se sarà giudicato colpevole, sarà espulso. Non potendo svolgere il suo lavoro a capo della Straits Exchange Foundation mentre è detenuto in isolamento, ha rassegnato le dimissioni. I sospetti, alimentati soprattutto dal Gmd, nascono dal fatto che le accuse riguardano eventi del 2017, su cui i procuratori avevano già deciso di archiviare. Il caso fa discutere perché Cheng era considerato uno dei pochi rivali interni seri di Lai.

Sui rapporti intrastretto, si conferma quanto aveva lasciato intravedere il discorso di insediamento: la retorica del nuovo presidente è piuttosto diversa da quella di Tsai. Un esempio è il discorso pronunciato in occasione del centenario dell’accademia militare di Whampoa (per cui erano arrivate anche le congratulazioni di Xi Jinping) in cui in sostanza chiede di prendere le distanze dalle radici cinesi ancora molto forti nell’esercito. Si tratta di un elemento da non sottovalutare, non solo e non tanto per ragioni politico-strategiche, quanto per le possibili conseguenze sull’opinione pubblica. Dopo le proteste di Hong Kong e la loro repressione, l’opposizione dei taiwanesi all’ipotesi di unificazione (o riunificazione come la definisce Pechino) è molto chiara, ma il controllo della retorica dello status quo è tutt’altro che definitivo. Come raccontavo qualche mese fa in un’analisi per Ispi, il maggiore successo politico di Tsai (aiutata appunto dai fatti di Hong Kong) è stato quello di impadronirsi della narrativa dello status quo.

Che cosa significa? Tradizionalmente, quella narrativa era governata dal Guomindang (Gmd), l’unico partito in grado di dialogare col Partito comunista cinese (Pcc). Per semplificare, prima il timore maggiore era il seguente: “Che cosa succede se vince il Dpp? Non è che ci porta vicini a una dichiarazione di indipendenza formale e dunque al rischio di un conflitto?” Con Tsai, la leader piu moderata di sempre del Dpp, quella componente di incertezza e imprevedibilità è venuta improvvisamente meno, buttandola per la prima volta nel campo del Gmd. Il timore maggiore è dunque diventato: “Che cosa succede se vince il Gmd? Non è che ci porta vicini a un’unificazione con Pechino e ci fa fare la fine di Hong Kong?”

Attenzione, però, perché il risultato conseguito da Tsai non è certo garantito nel lungo termine. Il Gmd, soprattutto con una presidenza dalla tonalità di verde piu forte come quella di Lai (che ha concesso una lunga intervista a Time), ha la possibilità di tornare a governare quella retorica. Ancora presto per dirlo, ma non per pensarlo.

A proposito di Gmd, la politica taiwanese continua a essere profondamente polarizzata. Nessun colloquio o confronto tra Lai e i due partiti rivali, nessuna possibilità di sintesi sulla riforma del potere legislativo. Respinta una volta da Lai per un nuovo esame, è stata approvata di nuovo. Ora si trova all’esame della Corte suprema, che nel frattempo ne ha sospeso la validità. Il dibattito interno, o meglio lo scontro, prosegue. Lasciando intravedere mesi e anni di divisioni e frammentazioni, amplificate rispetto agli anni scorsi dal fatto che lo yuan legislativo non ha una maggioranza ma fin qui sta vedendo la collaborazione tra il Gmd e il Taiwan People’s Party (Tpp) di Ko Wen-je, che ha dovuto incassare la condanna in primo grado della sua sindaca di Hsinchu (la “capitale” dei microchip).

Passate intanto alcune leggi, tra cui quella che chiede di riaprire i flussi turistici con la Cina continentale e una sull‘intelligenza artificiale.

Chiang Kai-shek non abita più qui

Due squadre di tre militari ciascuna marciano sul tappeto rosso, baionette in mano. Si salutano, poi alzano lo sguardo verso il placido sorriso di una grande statua in bronzo, alta oltre sei metri. Quel sorriso è di Chiang Kai-shek, il “generalissimo” del Guomindang sconfitto da Mao Zedong nella guerra civile cinese. Quelle due squadre di militari, in una caldissima mattina di un lunedì di metà luglio, sono le ultime a rendere omaggio con la guardia d’onore alla statua di quello che in molti a Taiwan ricordano come un dittatore sanguinario.

Siamo al memoriale di Chiang, nel centro di Taipei, cuore pulsante delle tante contraddizioni dell’isola. Un luogo che è tutto e il suo contrario: omaggio all’ex presidente della Repubblica di Cina (che resta anche oggi il nome ufficiale di Taiwan) con un museo pieno di suoi cimeli, ma anche esposizione-denuncia dell’epoca del “terrore bianco”, durante la quale Chiang sradicò qualsiasi forma di opposizione con una legge marziale durata quasi 40 anni. Il tutto in una grande piazza che ha preso il nome di Liberty Square ed è diventata il simbolo di una altrettanto sfaccettata transizione democratica avviata dalle aperture del figlio del “generalissimo”, Chiang Ching-kuo.

Ufficialmente per porre fine al “culto della personalità”, che per la verità appare piuttosto marginale anche tra le fila dei sostenitori del Guomindang. Forse più concretamente, si tratta invece di un altro passo di allontanamento dalle radici “continentali” e dunque dalla Cina, intesa come entità “allargata” al di là dell’istituzione politico-statuale, fino alla sua dimensione storico-culturale. È quello che il Guomindang e il Partito comunista chiamano tentativo di “desinizzazione”, che al momento non è destinato a passi definitivi come una dichiarazione di indipendenza formale ma semmai a una “taiwanesizzazione” dello status quo.

Per leggere tutta la storia, ne ho scritto qui.

A proposito di Chiang, il pronipote Chiang Wan-an, sindaco di Taipei, si è vestito da Cupido per lanciare delle politiche a favore delle giovani coppie.

Si spegne il penultimo reattore nucleare

27 luglio 1984. Qualche chilometro più a sud di Hengchun, la città più meridionale di Taiwan, ci si trova praticamente sulla punta dell’isola. Affacciati sul Pacifico, nel punto di intersezione tra mar Cinese orientale e mar Cinese meridionale. È qui che quel giorno entra in funzione la centrale nucleare di Maanshan, la terza di Taiwan. In quel momento la Cina continentale non ne ha nemmeno una di produzione propria. Il reattore di Qinshan si accenderà solo nel dicembre del 1991. Taiwan è d’altronde una delle tigri asiatiche e la Repubblica Popolare di Deng Xiaoping è ancora agli albori dei decenni della sfrenata crescita della stagione di riforma e apertura. L’avvio dei reattori di Maanshan sono salutati dall’allora governo taiwanese come un simbolo di avanzamento tecnologico e un altro passo verso la messa in sicurezza del proprio approvvigionamento energetico.

27 luglio 2024. Quarant’anni esatti dopo la sua accensione, alle dieci in punto di un torrido sabato sera post tifone, i dipendenti della Taipower spengono il reattore numero 1 della centrale di Maanshan. Ora, a Taiwan, resta per qualche mese solo un altro reattore ancora attivo prima di diventare completamente nuclear free. In Cina continentale, nel frattempo, i reattori sono diventati 55. In questi 40 anni è cambiato tutto, come spiega bene la vicenda della centrale di Maanshan. La Commissione di Sicurezza Nucleare ha approvato il suo decommissionamento, immediatamente avviato da domenica 28 luglio. Nei prossimi mesi si passerà alla rimozione dei reattori e verrà completato un rapporto di impatto ambientale. A nulla sono servite le proteste e i dubbi di impiegati, comunità locale e parte della politica.

In molti temono che con l’addio all’energia nucleare, aumenteranno le emissioni di carbonio e aumenterà il rischio di instabilità energetica con blackout sempre più frequenti e la necessità di aumentare ulteriormente l’approvvigionamento dall’esterno. C’è anche chi teme ripercussioni sull’operatività dell’immensa industria dei microchip, che rappresenta una percentuale sostanziale del prodotto interno lordo di Taipei. La sicurezza energetica è essenziale per i tanti impianti di fabbricazione e assemblaggio della TSMC, primo colosso mondiale del comparto, considerato il principale biglietto da visita dell’innovazione e capacità produttiva taiwanese. In questi mesi, Taiwan ha avuto diversi episodi di riserva operativa che hanno fatto precipitare la percentuale di riserva in territorio di “allarme arancione”.

A Taiwan, peraltro, l’energia non è solo un tema legato all’ambiente, ma anche alla sicurezza. Durante le grandi esercitazioni militari dell’agosto 2022 messe in atto dalla Cina come risposta alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, è stato simulato per la prima volta un blocco navale. L’episodio ha ha aumentato i timori sulla durata delle riserve energetiche. La convinzione diffusa tra gli analisti taiwanesi è che un ipotetico blocco reale con una durata superiore alle due settimane potrebbe già mettere in ginocchio l’approvvigionamento energetico.

Per leggere tutta la storia, ne ho scritto qui.

Zero Day, la serie che vuole spaventare i taiwanesi

Un jet cinese transitato nello spazio di difesa aerea di Taiwan scompare sul mar Cinese meridionale. Pechino annuncia immediatamente una zona di interdizione aerea e navale per avviare una missione di ricerca e soccorso. In un attimo, la zona di interdizione diventa blocco navale esteso intorno all’isola. A Taiwan non arrivano più approvvigionamenti dall’esterno. Niente energia, niente cibo, nulla. E nessun aiuto di presunti partner internazionali. Gli scaffali dei supermercati si svuotano, il sistema finanziario va in tilt e prelevare contanti agli sportelli delle banche diventa impossibile. I sistemi informatici sono paralizzati da una serie di cyberattacchi, mentre in televisione vanno in onda messaggi rassicuranti e patriottici di una presentatrice cinese vestita di rosa che esalta la “riunificazione pacifica”. Chi può prova a fuggire, anche se lasciare un’isola circondata è difficile, se non impossibile. Il potere politico rischia di sgretolarsi, per giunta in una fase di transizione post elettorale tra un presidente e l’altro. Nelle strade si attiva una quinta colonna pro riunificazione, che inizia a dettare la propria legge, andando a caccia dei presunti pro indipendentisti.

Il teaser da 17 minuti della serie televisiva taiwanese Zero Day, in uscita nel 2025, è un pugno nello stomaco. Mirava proprio a essere questo. Già dal titolo, l’obiettivo dichiarato dell’operazione è quella di rendere più verosimile l’ipotesi di uno scenario militare sullo Stretto di Taiwan e alzare la consapevolezza di una cittadinanza ritenuta spesso troppo compiacente. L’operazione ha fondi del governo taiwanese ed è co-finanziata da Robert Tsao, uno dei magnati dell’industria dei chip di Taiwan, una figura che ha vissuto più svolte nel corso della sua vita ed è diventato un po’ l’emblema del ripensamento di Taipei nei confronti di Pechino.

Anche il tempismo della diffusione del teaser non è casuale, visto che è avvenuta proprio durante la settimana delle esercitazioni annuali Han Kuang. In questa occasione, le manovre militari hanno subito dei drastici cambiamenti. In passato, queste esercitazioni erano più uno spettacolo, una recita, che un test rigoroso delle proprie capacità belliche e di difesa in contingenze reali. Le Han Kuang degli anni scorsi includevano simulazioni di fuoco vivo sulla spiaggia per respingere gli invasori anfibi cinesi e sono sempre state osservate dal presidente, da politici di alto livello e da diplomatici stranieri su tribune coperte e sono trasmesse in diretta televisiva. Per garantire una performance impeccabile, le truppe si allenano per settimane e i soldati vengono disciplinati in caso di errori.

Stavolta è stato tutto più realistico, coi soldati che hanno ricevuto istruzioni per compiti precisi sul campo di battaglia con breve preavviso, muovendosi anche in luoghi civili in corrispondenza di infrastrutture o altri snodi della vita taiwanese. In diverse città, Taipei compresa, sono suonate le sirene per i test anti aerei. Per trenta minuti la metropoli è diventata un luogo spettrale con strade deserte e tutti bloccati nei luoghi in cui si trovavano oppure condotti nei rifugi antiaerei più vicini. Si vuole anche rafforzare il ruolo dei civili. Le esercitazioni sono state alla fine interrotte con due giorni di anticipo a causa del tifone Gaemi (che ha causato diverse vittime e alluvioni, con una testa Maori caduta in mezzo alla strada a Hualien in una visione surreale), che ha costretto l’esercito a impiegare i militari nelle operazioni di salvataggio. Ma l’onda lunga del cambio di approccio, pur con tutte le sue lacune tecniche e operative, resta.

Per leggere tutta la storia, ne ho scritto qui.

Rapporti intrastretto

A proposito di relazioni intrastretto e aspetti militari, dopo le esercitazioni militari Spada Congiunta 24A in risposta all’insediamento di Lai, non si possono escludere nuove turbolenze. In quale occasione? Bill Bishop ha avanzato l’ipotesi che la ex presidente Tsai possa parlare al Congresso degli Stati Uniti nei prossimi mesi, mentre sarebbe in preparazione un viaggio all’estero di Lai. Il viaggio sarebbe per forza di cose in un paese che riconosce Taipei. Se la visita fosse in uno dei paesi dell’America latina, come pare probabile (forse il Paraguay), ci sarebbe senz’altro un transito negli Stati Uniti. Il doppio transito di Tsai nell’aprile 2023, con incontro con l’allora presidente della Camera Kevin McCarthy, portò ad ampie esercitazioni militari.

L’aeronautica militare di Taiwan ha iniziato a luglio a emettere avvisi radio bilingue cinese-inglese quando richiama gli aerei dell’Esercito Popolare di Liberazione che volano nella zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan.

Ma le mosse maggiori sono state su altri ambiti, in particolare sul fronte commerciale e normativo. Pechino ha sospeso le agevolazioni tariffarie per 134 tipologie di prodotti taiwanesi.

Sul fronte retorico, due passaggi importanti da segnalare. Il Financial Times sostiene che nel 2023 Xi Jinping avrebbe detto a Ursula von der Leyen che gli Stati Uniti vogliono portare Pechino a un attacco su Taiwan. Al di là del fatto che il presidente cinese ci creda davvero o meno, è interessante come aspetto e sembra comunicare due cose. La prima: Xi vuole dire all’interno che bisogna pazientare e non cascare nella trappola, prendendo dunque tempo e provando a calmare gli ultranazionalisti belligeranti. La seconda: provare a dare forma alla narrativa su Taiwan a livello internazionale. Cosa che sta riuscendo sempre più spesso coi paesi del cosiddetto Sud globale, da cui Pechino ottiene non solo il riconoscimento della politica della “unica Cina”, ma anche l’appoggio alla riunificazione.

Una parte della “battaglia internazionale” su Taiwan, che comprende anche lo scontro sulla famigerata risoluzione 2758 delle Nazioni Unite. Nel frattempo, si è svolto il “vertice” dei parlamentari dell’Ipac a Taipei, con due parlamentari taiwanesi che sono entrati nel gruppo (peraltro finanziato dalla stessa Taiwan). Intervenuto anche Lai.

Allo Shangri-La Dialogue di Singapore c’è poi stato anche il primo discorso internazionale del ministro della Difesa Dong Jun, che su Taiwan è stato piuttosto duro. Come ho scritto qui, il passaggio davvero significativo è il seguente: “Restiamo impegnati alla riunificazione pacifica, ma questa prospettiva viene costantemente erosa dai separatisti e dalle forze straniere. L’Esercito popolare di liberazione resterà una forza vigile per perseguire la riunificazione”. Si tratta di un elemento rilevante perché dà una prospettiva dinamica e non statica alla situazione e fa intendere che la Cina possa in futuro anche iniziare a pensare che resti poco spazio per un’azione di tipo politico per raggiungere i suoi obiettivi.

Raymond Greene è il nuovo ambasciatore de facto degli Usa a Taipei. Secondo i media continentali, sarebbe stato “oscurato” un suo riferimento alla “unica Cina”.

Il nuovo libro bianco sulla difesa del Giappone parla di Taiwan in modo più concreto del passato, anche se da Tokyo c’è chi avverte che forse Taipei si fida troppo sul possibile aiuto giapponese in caso di conflitto.

Un uomo di 60 anni ha raggiunto il porto alla foce del fiume Tamsui a Nuova Taipei City ed è stato arrestato per ingresso illegale nel paese. Ruan, questo il cognome dell’accusato, era stato avvistato il giorno prima a 11 km dalla costa con il suo motoscafo, che avrebbe guidato dal porto cinese di Fuzhou. L’uomo afferma di essere “un ex capitano della marina cinese” e il suo ingresso ha sollevato critiche e preoccupazioni sulla sicurezza delle coste taiwanesi. Avrebbe agito da solo.

La provincia cinese più vicina a Taiwan cerca di rafforzare i legami, ma le imprese sono diventate caute a causa delle preoccupazioni geopolitiche ed economiche, scrive il Financial Times a proposito di Pingtan.

Altri segnali, ma in questo caso di dialogo, da Kinmen (qui un mio reportage del 2021). La Straits Exchange Foundation del nuovo direttore Rock Hsu ha annunciato che assegnerà del personale a un centro servizi locale nella contea periferica di Kinmen per promuovere i legami tra le due sponde dello Stretto.

Dopo le interruzioni causa Covid, si è svolta una gara annuale di nuoto a staffetta su lunga distanza nelle acque tra le isole Kinmen di Taiwan e Xiamen, in Cina continentale, che ha coinvolto partecipanti e funzionari di entrambe le sponde dello Stretto di Taiwan.

Soprattutto, è stato raggiunto un accordo per chiudere l’incidente dello scorso 14 febbraio in cui erano morti due pescatori cinesi.

Pena di morte per i secessionisti radicali

Agosto 2022. Tutto il mondo parla delle vaste esercitazioni militari lanciate dalla Cina sullo Stretto di Taiwan, in risposta alla visita a Taipei dell’allora presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi. A Taiwan, però, si parla soprattutto di Yang Chih-yuan. Si tratta di un attivista di 33 anni, arrestato a Wenzhou, in Cina continentale. Mentre nelle acque e nei cieli intorno all’isola si muovono navi e jet cinesi, i taiwanesi si interessano soprattutto alle manette fatte scattare per Yang. Un esempio lampante per chiarire come Pechino non abbia solo le armi in senso stretto per colpire Taiwan, ma anche un arsenale normativo che pare per certi versi anche più efficace.

Un arsenale che si è appena arricchito, dopo che nelle scorse settimane una nuova direttiva è stata rilasciata congiuntamente dalla Corte Suprema del Popolo, dalla Procura Suprema del Popolo e dai ministeri della Pubblica Sicurezza, della Sicurezza dello Stato e della Giustizia. Che cosa prevede? Il testo chiarisce che i “secessionisti irriducibili” taiwanesi possono essere condannati a morte nei casi più estremi. Secondo il documento, coloro che hanno organizzato, pianificato o guidato attività separatiste, o coloro che sono stati direttamente coinvolti nella realizzazione delle attività, potrebbero essere incarcerati da 10 anni all’ergastolo. Le persone che prendono parte a più attività separatiste, svolgono ruoli importanti o aiutano i leader di tali attività potrebbero essere incarcerate fino a 10 anni. Nei casi in cui si ritenga che abbiano “messo gravemente in pericolo lo Stato e il popolo”, il documento prevede la pena di morte.

La direttiva si innesta sulla legge anti secessione del 2005, ma per la prima volta si rivolge direttamente agli “indipendentisti taiwanesi”, mentre precedentemente riguardava i “separatisti” in maniera più generica. Non solo, vengono forniti nuovi dettagli sulla specifica di diverse azioni che rientrano sotto l’ombrello del “secessionismo”. Tra queste, viene incluso chi “tenta di cambiare lo status giuridico di Taiwan come parte della Cina” attraverso emendamenti legislativi, e chi promuove l’ingresso di Taiwan in organizzazioni internazionali, o si impegna in scambi ufficiali con organismi stranieri e contatti militari. Saranno ritenuti penalmente responsabili anche coloro che operano nei settori dell’istruzione, della cultura, della storia e dei media e che utilizzano le loro posizioni per “distorcere o falsificare il fatto che Taiwan fa parte della Cina”, o coloro che “reprimono partiti, organizzazioni o individui che sostengono lo sviluppo pacifico delle relazioni tra le due sponde dello Stretto e l’unità nazionale”.

La mossa è anche successiva di pochi giorni alla visita di due vice assistenti al Segretario di Stato degli Usa, che a Taipei hanno riunito rappresentanti di 23 Paesi per parlare del sostegno a Taiwan sul palcoscenico internazionale. Una mossa inedita che potrebbe spingere Pechino a controbattere con manovre più audaci. Non è un caso che, di recente, negli incontri bilaterali tra il governo cinese e i rappresentanti dei Paesi del cosiddetto “Sud globale” si vada oltre alla richiesta di ribadire l’adesione alla politica della “unica Cina”, ma si chiede anche sostegno esplicito alla “riunificazione” di Taiwan.

Taipei ha sconsigliato i viaggi in Cina continentale, da dove sono arrivati tentativi di rassicurazione sul fatto che le norme prendono di mira un “piccolo gruppo” e non la “stragrande maggioranza” dei “compatrioti” taiwanesi. Dubbi anche per le aziende internazionali che hanno personale taiwanese in Repubblica Popolare, che anche qui prova a rassicurare.

Per leggere tutta la storia, ne ho scritto qui.

Il caso Mayday

Noi cinesi“. Una formula apparentemente innocua, ma che se pronunciata da qualcuno proveniente da Taiwan rischia di scatenare polemiche e impattare su una carriera. L’ultimo a utilizzarla in ordine di tempo è stato Ashin, il cantante della leggendaria rock band taiwanese Mayday. «Noi cinesi, quando veniamo a Pechino, dobbiamo mangiare l’anatra alla pechinese», ha detto in una pausa tra una canzone e l’altra durante un concerto nella capitale della Repubblica Popolare. Il riferimento di Ashin alla band come “cinese” è diventato immediatamente uno dei principali trend su Weibo, una sorta di X cinese, e ha scatenato discussioni infinite tra i netizen taiwanesi. Certo, anche la tempistica dell’uscita fa pensare, visto che è caduta tra l’insediamento di Lai.

Già nell’agosto del 2022, dopo la visita a Taipei di Nancy Pelosi, i media statali di Pechino avevano lanciato iniziative simili con hashtag sull’esistenza di una unica Cina condivisi da decine di artisti taiwanesi. In alcuni casi si tratta peraltro degli stessi di oggi. Due anni fa, su Weibo era apparsa una lista delle celebrità che non avevano aderito.

La questione culturale è tutt’altro che secondaria, visto che Pechino la utilizza anche per avvicinare qualche giovane taiwanese.

Per leggere tutta la storia, ne ho scritto qui.

Trump avvisa Taipei

“Volete la nostra difesa? Ci dovete pagare”. Con l’orecchio bendato, Donald Trump intravede la Casa bianca più vicina. E in un’intervista a Bloomberg fa invece ascoltare al mondo la stessa musica proposta durante il suo primo mandato: le alleanze e partnership hanno un prezzo. Una sinfonia che ha già mandato nel panico l’Europa, che teme di essere abbandonata nella gestione della guerra in Ucraina e diversi altri fonti di crisi. Ma che ora preoccupa anche l’Asia. A partire da Taiwan, oggetto dell’avvertimento dell’aspirante prossimo presidente degli Stati uniti, paragonati da Trump a una “compagnia di assicurazioni” che, in cambio della tutela difensiva rispetto alle possibili mosse di Pechino, da Taipei “non riceve nulla”. Il sopravvissuto agli spari in Pennsylvania prosegue: “Conosco la gente di Taiwan molto bene, la rispetto molto. Si sono presi circa il 100 per cento del nostro business dei chip”.

Il riferimento è ai colossi taiwanesi dei semiconduttori, a partire da Tsmc, che hanno in realtà costruito un sistema integrato di fabbricazione e assemblaggio che li rende indispensabili a tutto il mondo. Usa e Cina compresi, con Tsmc che sta peraltro costruendo tre fabbriche in Arizona in un maxi progetto dalla cifra monstre di 65 miliardi di dollari. Non è certo un caso che ieri le azioni del gigante fondato da Morris Chang siano nettamente calate in borsa. Da Taipei, il premier Cho Jung-tai ha subito risposto, garantendo che le relazioni con Washington resteranno “solide” a prescindere dall’esito delle elezioni di novembre. E garantendo che Taiwan è disposta ad aumentare gli impegni in materia di difesa, sottolineando la costante crescita del budget militare e l’ampliamento della leva obbligatoria deciso a fine 2022.

Ma la realtà è che, come già in passato, serpeggia qualche preoccupazione sulla tenuta del sistema di sicurezza e di alleanze degli Usa in Asia-Pacifico. Taipei è fiduciosa di restare una priorità dell’approccio globale di Washington anche in caso di un Trump bis, ma sa che ha bisogno di essere posta all’interno di un’architettura regionale le cui fondamenta devono essere periodicamente rafforzate dagli Stati uniti.

Per leggere tutta la storia, ne ho scritto qui.

Microchip
Per sei anni, C.C. Wei ha guidato silenziosamente la TSMC attraverso un periodo di crescita e sfide senza precedenti. Ora assume un ruolo ancora più importante come presidente dopo il ritiro di Mark Liu certificato dall’incontro generale annuale del colosso. Nel suo primo discorso da presidente, Wei ha dichiarato che TSMC “non ha competitor”, rilanciando la visione rivoluzionaria del fondatore Morris Chang che ha portato l’azienda a produrre chip per conto terzi e non per dispositivi propri (elemento che la differenzia dal primo concorrente, la sudcoreana Samsung).  Wei ha subito rinsaldato i legami con due tra i principali clienti, Nvidia (che pensa a costruire a Taiwan il secondo supercomputer) e AMD, i cui vertici sono stati a Taipei per l’importante fiera di settore Computex, peraltro con alcune polemiche con Pechino per alcune frasi di Jenson Huang.
Negli scorsi anni, Wei si è più volte lamentato per le crescenti restrizioni che “distorcono il libero mercato distruggendo produttività ed efficienza della globalizzazione”. Wei, grande amante delle arti marziali cinesi, intende mantenere per quanto possibile aperto il cordone tech con la Cina continentale. E da lui ci si aspetta uno stile di leadership molto meno “ortodosso” dei predecessori.

Alcune aziende cinesi produttrici di chip per l’intelligenza artificiale stanno progettando processori meno potenti per mantenere l’accesso alla produzione di TSMC ed evitare le sanzioni statunitensi. Intanto la geopolitica continua a suggerire a premere su Taiwan ma nonostante i timori delle grandi aziende tecnologiche internazionali sembra impossibile farne a meno. Anche e soprattutto per il suo dominio nel settore dei chip. Crescono le pressioni sul gigante TSMC per spostare altrove le sue fabbriche, ma il neo presidente Wei ha spiegato che è impensabile ricreare altrove l’ecosistema taiwanese.

L’intelligenza artificiale sembra destinata a trainare TSMC nei prossimi anni.

Secondo The Insider, la Russia continua a importare liberamente silicio taiwanese per le piastre wafer, che servono come componente di base per la maggior parte dei microchip prodotti nel Paese. Tali microchip sono parte integrante della produzione di jet da combattimento, missili Iskander, lanciatori S-300, sistemi missilistici terra-aria Pantsir e altre attrezzature militari. Se Taiwan limitasse le sue esportazioni di silicio cruciale, il complesso militare-industriale russo potrebbe incontrare difficoltà insormontabili.

Le Olimpiadi viste da Taipei

Sono cominciati i Giochi Olimpici di Parigi 2024. Taiwan gareggia come sempre come “Taipei Cinese”. A giovedì 1 agosto, non ha vinto ancora alcuna medaglia ma ha diversi atleti ancora in corsa per riuscirci. A Tokyo 2020 la delegazione ne aveva vinte ben 12, record di sempre. Qui qualche numero. Nel 2022, in occasione dei Giochi Olimpici Invernali di Pechino, avevo preparato un contenuto tutto dedicato al tema delle Olimpiadi viste. Ripropongo qui uno stralcio riguardante il tema del nome.

Il nome “Taipei Cinese” è stato scelto dopo lunghe trattative ed è frutto di un compromesso che gioca volutamente su un’ambiguità semantica tra sfera storico-politica e sfera culturale. La denominazione di Taipei Cinese fa la sua prima apparizione ufficiale alle Olimpiadi del 1984 a Los Angeles, dopo che il governo del Guomindang decise di accettarla nel 1981. Il cambio di nome si era reso necessario dopo che Pechino prese il posto di Taipei presso le Nazioni Unite, non togliendole comunque il diritto di mantenere un proprio comitato olimpico (che tuttora mantiene anche Hong Kong).
A pochi taiwanesi il nome “Taipei Cinese” entusiasma. Anche perché significa che in tutte le competizioni sportive internazionali non risuona l’inno ufficiale della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan), né sventola la sua bandiera. Ma va ricordato che nel momento di cambio di denominazione a Taipei vigeva ancora la legge marziale e il Guomindang era il partito unico, che sognava un giorno di riprendere il controllo della Cina continentale. Poi, quasi tutto è cambiato. Ma non il nome, anche per scelta dei taiwanesi stessi che nel 2018 hanno rigettato in un referendum la proposta di perseguirne la modifica in “Taiwan”. Una scelta definita “pragmatica“, condivisa peraltro dallo stesso governo del Partito democratico progressista.

Di Lorenzo Lamperti

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Il bilancio dell’era Tsai, gli scenari dell’era Lai

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