Taiwan Files – Taipei non è Kiev, neanche post invasione russa

In Asia Orientale, Taiwan Files by Lorenzo Lamperti

Lunga puntata sull’impatto dell’invasione russa in Ucraina sulla situazione taiwanese. La rassegna di Lorenzo Lamperti con le ultime notizie da Taipei (e dintorni)

Taipei non è Kiev. Era il titolo di Taiwan Files un mese fa. E, dopo aver passato in rassegna la scorsa settimana un po’ di punti di vista su somiglianze e differenza e soprattutto consequenzialità delle due vicende, torna a essere il titolo dopo l’invasione russa. Prima un po’ di cose scritte in questi giorni sul tema, poi si prosegue nella ricognizione di idee, prospettive e spunti su e da Taipei.

Perché Taipei non è Kiev: la narrativa cinese

Taiwan non è l’Ucraina. Non lo è per nessuna delle parti coinvolte, come ho provato a spiegare in questo video pubblicato su Instagram. Tema del quale si è parlato anche su Radio Radicale con Francesco Radicioni, Giulia Pompili (che ha intervistato su Il Foglio Wang Ting-yu, parlamentare del Partito democratico progressista e copresidente della commissione parlamentare per gli Affari esteri e la Difesa)  e Danilo Taino nello speciale condotto da Francesco De Leo.

Non lo è per Pechino (ne ho scritto su il Manifesto, mentre sull’Espresso ne ha parlato anche Simone Pieranni e su China Files Giulia Sciorati). Primo punto della narrativa del Partito comunista sul tema: Taipei non si deve paragonare a Kiev nel tentativo di internazionalizzare una vicenda interna alla Cina. Ergo non assimilabile alle azioni del partner (non ancora alleato) russo. Tra le righe: a differenza di Putin la Cina non minaccia l’integrità territoriale di un paese che fa parte delle Nazioni Unite, distinguo utilizzato dal ministro degli Esteri Wang Yi alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Secondo punto della narrativa cinese: la colpa della guerra in Ucraina è tutta degli Usa che allo stesso modo non onorano gli impegni su Taiwan (per esempio vendendo armi) con conseguenti rischi per lo status quo. Dunque, secondo Pechino, in caso di crisi su Taipei la responsabilità sarà sempre americana.

Il punto seguente della narrativa, quello su cui Pechino insiste di più, chiarisce che le navi da guerra non sono ancora pronte a salpare sullo Stretto. Come già accaduto dopo la caduta di Kabul, media e social cinesi insistono sul sottolineare l’inaffidabilità di Washington che «gioca sulla pelle degli ucraini». Per poi abbandonarli come una pedina di un gioco più grande. La stessa cosa che potrebbero fare con Taiwan. Proprio mentre l’Ufficio per gli Affari di Taiwan di Pechino promette nuovi vantaggi per imprese e individui taiwanesi che scelgono di lavorare nella Repubblica popolare.

Per la Cina attaccare Taiwan significherebbe ammettere il fallimento dell’efficacia del modello un paese, due sistemi. E recidere quei legami col mondo occidentale che invece con la sua attuale postura sulla crisi ucraina lascia intendere di volere in qualche modo preservare. Senza contare che Xi, in avvicinamento al XX Congresso che dovrà sancirne il terzo mandato, avrebbe bisogno di stabilità e non avventure in grado di minarne il consenso. Vista dalla Cina, attaccare Taiwan significherebbe attaccare se stessa. Se in futuro dovrà farlo, lo farà a prescindere da quanto Putin travalichi l’integrità territoriale ucraina.

Sostanzialmente sulla stessa linea anche The Economist e Ryan Hass, che analizza gli insegnamenti che Taipei dovrebbe trarre comunque dalla vicenda ucraina.

Perché Taipei non è Kiev: la narrativa americana

Taiwan non è l’Ucraina. Non lo è per Washington. Per gli Usa, la Cina è diventato il primo rivale e il centro della loro strategia è diventata l’Asia-Pacifico. Da allora la Casa Bianca si prodiga a rassicurare Taipei sulla volontà di difenderla. Tra gaffe (di Biden) e finti segreti svelati (la presenza dei militari Usa a Taiwan), l’ambiguità strategica sembra essere meno ambigua. Kiev è il 67esimo partner commerciale di Washington, Taipei il nono. Senza contare il ruolo cruciale dei suoi semiconduttori. Taiwan ha anche un’importanza simbolica. Esempio vivente, per usare una visione alla Mike Pompeo (che tra l’altro sarà a Taipei nei prossimi giorni), che un governo etnicamente cinese può prosperare senza la guida comunista.

Una sottile partita psicologica nella quale l’arsenale normativo è per certi versi più preoccupante, o potenzialmente più efficace, di quello militare. Anche se poco dopo i carri russi 9 aerei cinesi sono entrati nello spazio di identificazione di difesa taiwanese, come avevano fatto ad agosto dopo il ritiro dall’Afghanistan.

Forse non a caso, il cacciatorpediniere Uss Ralph Johnson è passato sabato nello stretto di Taiwan: tentativo di rassicurazione. Altrettanto non a caso, Pechino sta cercando di miscelare le intimidazioni retoriche e militari con la reiterazione del proposito di “riunificazione pacifica”. D’altronde, come sempre, più la Repubblica Popolare viene percepita come una minaccia e più la maggioranza dei taiwanesi se ne allontanano.

Perché Taipei non è Kiev: la prospettiva taiwanese

Taiwan non è l’Ucraina. Non lo è nemmeno per Taipei stessa, come ho scritto qui. “Chiederemo al governo di ritirare tutti i militari rimasti qui per evitare che Kinmen diventi una nuova Ucraina”, ha detto l’autoproclamatosi direttore della filiale della Sun Yat-sen School del piccolo arcipelago a pochi chilometri dal Fujian cinese. “Siamo sicuri che sia una scelta corretta affidare il nostro futuro a un alleato come gli Stati Uniti?”, ha chiesto tra le altre cose Hung Hsiu-chu, ex presidente del Guomindang. O ancora: “Che cosa ha imparato Taiwan dall’Ucraina? Tutta la solidarietà internazionale è vuota e nessuno aiuterà in caso di guerra. Gli Stati Uniti non invieranno mai truppe perché combattere una guerra per procura è il loro migliore interesse”, ha affermato l’ex militare Wu Sz-huai e deputato del Gmd.

Schegge di presa della retorica del Partito comunista a Taiwan, dove in realtà anche il principale partito d’opposizione questa volta, contrariamente al post Kabul, non sta facendo da sponda alla narrativa di Pechino secondo la quale la vicenda ucraina dimostra che Washington tradirà Taipei in caso di bisogno. Quantomeno non la dirigenza del partito, semmai imbarazzata da prese di posizione di outsider che in qualche modo gravitano nella sua orbita. Anzi ha condannato l’invasione russa e, tra le ultime note ufficiali si legge il benvenuto al coinvolgimento di Taiwan nella nuova strategia dell’Indo-Pacifico degli Usa. Non un caso, visto che nelle scorse settimane la forza politica più dialogante con Pechino ha aperto un ufficio di rappresentanza a pochi passi dalla Casa Bianca, nel tentativo di rendersi “potabile” agli occhi americani in vista delle presidenziali del 2024.

Non è un mistero che quanto accada in Ucraina stia avendo un impatto psicologico sui taiwanesi (del quale ha scritto anche il Guardian). “Sì, le due situazioni sono completamente diverse ma ci sono alcuni sentimenti profondi che mi fanno mantenere l’attenzione su quanto sta succedendo lì. Questo sentimento può essere difficile da capire per persone di altri paesi”, dice per esempio il giornalista William Yang. È quell’empatia di cui ha parlato Tsai Ing-wen, che ha comunque sottolineato l’inesattezza dei paralleli tra Taipei e Kiev. Significativo che ora cambi l’approccio delle forze politiche principali. La stessa Tsai, che dopo la caduta di Kabul aveva invitato i taiwanesi a essere pronti a doversi difendere da soli (ne avevo scritto su ISPI), stavolta fa riferimento alle partnership con Usa e altri paesi.

Invasione russa vissuta da Taipei tra sanzioni e proteste

Il governo taiwanese ha intanto condannato la violazione russa della sovranità ucraina e si è aggregata alle sanzioni internazionali, compreso il divieto di esportazione di semiconduttori, settore nel quale come noto è leader mondiale nella fabbricazione e assemblaggio. Ma prevede un impatto limitato sulle sue esportazioni in materia di chip. Ci si aspetti però che aumenti l’inflazione.

Secondo un think tank legato al ministero della Difesa, la capacità di resistenza dell’Ucraina “ha fornito una buona lezione a Taiwan, indicando che un’enfasi sull’addestramento regolare dei riservisti militari sarà la chiave per un paese per affrontare un’intrusione militare”. Un tema molto spinoso e sul quale l’amministrazione Tsai è stata anche negli scorsi mesi messa alle strette dal Gmd.

A proposito di militari, ai quali è stata chiesta comunque attenzione dopo l’invasione russa, si dibatte anche sulle spese economiche e psicologiche causate dalle continue incursioni aeree cinesi.

Il ministro degli Esteri Joseph Wu sostiene che la Cina potrebbe decidere per un’invasione militare quando vorrà distogliere l’attenzione dalle sue difficoltà interne.

Un recente sondaggio pubblicato martedì 22 febbraio ha rilevato che il 63% dei taiwanesi crede che un’azione aggressiva della Russia contro l’Ucraina non porterà la Cina ad attaccare Taiwan. La Taiwanese Public Opinion Foundation (TPOF) ha però condotto il sondaggio sulla situazione tesa tra Ucraina e Russia dal 14 al 15 febbraio, una settimana prima che Mosca annunciasse l’invio di truppe in due aree dell’Ucraina orientale tenute dalle forze filorusse.

Secondo Euronews, molti taiwanesi non si sentono coinvolti direttamente da quanto accade in Ucraina.

Nei giorni scorsi, in particolare venerdì 25 e sabato 26 febbraio, si sono svolte delle manifestazioni a sostegno dell’Ucraina a Taipei, dove il 101 (l’ex grattacielo più alto del mondo) si è anche illuminato con la bandiera ucraina. Era presente Lucia Gragnani, studiosa di geopolitica e dell’Indo-Pacifico presso la National Taiwan University e la Charles University, che racconta per Taiwan Files:

“Venerdì 25 febbraio c’erano più di 50 persone (sabato 26 ce n’erano di più, ndr) davanti all’Ufficio di Rappresentanza di Mosca a Taipei per protestare contro le azioni russe in Ucraina. L’atmosfera è cupa ma Taipei mostra solidarietà nei confronti di Kiev. La maggior parte dei partecipanti sono studenti stranieri, accompagnati da una folla di giornalisti. Tra tutti spicca la comunità ucraina residente a Taipei, tra cui alcuni provenienti dalle zone appena occupate dai russi. Nel gruppo ci sono anche taiwanesi, ma in minoranza. E mentre il parallelo tra Kiev e Taipei viene proposto da buona parte dei media europei, a Taiwan il legame viene considerato irrealistico. La fratellanza nei confronti dell’Ucraina c’è e si sente, la paura no. Il governo condanna la Russia e supporta le sanzioni dell’Unione Europea, ma per strada la vita procede come sempre, senza allarmismo. A rendere Taipei vicina a Kiev sembra essere più la solidarietà tra chi condivide la vicinanza geografica con un vicino con mire territoriali piuttosto che la sensazione di un destino condiviso”. 

Pompeo a Taipei

Si sapeva che prima o poi sarebbe arrivato. Ora si sa anche quando: il 2 marzo. Taiwan si prepara a ricevere Mike Pompeo, ex segretario di stato dell’amministrazione Trump (ne ho scritto qui). La sua missione sarà osservata con attenzione da Pechino, ovviamente, ma anche dalla Casa Bianca. La linea dell’amministrazione Biden su Taiwan, infatti, si fregia di essere animata da spirito bipartisan. Da capire se lo stesso spirito anima anche Pompeo, che da molti è indicato come uno dei possibili candidati alle elezioni del 2024, soprattutto qualora Donald Trump scegliesse di non tentare il ritorno.

L’agenda prevede in quattro giorni incontri con Tsai, il ministro degli Esteri Joseph Wu (anche lui inserito in una “lista nera” dal governo della Repubblica Popolare) e il vicepresidente William Lai. Quest’ultimo, considerato meno centrista rispetto a Tsai, è il più che probabile candidato del Partito democratico progressista alle presidenziali del 2024. Pompeo terrà anche un discorso alla Prospect Foundation, think tank affiliato al governo, e incontrerà i manager del colosso mondiale dei semiconduttori Tsmc e del conglomerato statale China Steel Corp.

Pompeo arriverà a Taipei insieme alla moglie e a Miles Yu, suo ex consigliere che di recente ha pubblicato un commento sul Taipei Times nel quale auspica la costruzione di una coalizione anti-Pcc con Taiwan suo centro di gravità. Sul finire di mandato trumpiano la China policy di Pompeo era diventata molto aggressiva e con un obiettivo preciso: il “regime change”. Tanto che il Partito comunista lo ha sanzionato insieme ad altri 27 rappresentanti statunitensi. Lui, dopo essersi fatto ritrarre da prodotti a base di ananas taiwanese (vittima di un divieto all’importazione delle autorità cinesi) aveva risposto preannunciando questa visita.

Una visita che il ministero degli Esteri taiwanese ha presentato come la prova del “forte sostegno bipartisan” da parte di Washington. Da quando c’è Biden alla Casa Bianca, si sono succedute diverse missioni di esponenti repubblicani o miste. Per ora è filato tutto liscio, anche se aveva destato qualche perplessità il tweet nel quale la deputata Nancy Mace annunciava di essere atterrata “nella Repubblica di Taiwan”. Non Repubblica di Cina, nome ufficiale, ma nemmeno Taiwan, che viene utilizzato anche da Pechino per identificare quella che ritiene una sua provincia. Ma Repubblica di Taiwan. Segnale di vicinanza e messaggio di impegno a lungo termine verso l’obiettivo finale di chi vuole l’indipendenza con il cambio di denominazione? Semplice gaffe? Oppure un’esposizione prematura per Taiwan stessa?

Esposizione prematura non solo dalla solita prospettiva della “Cina che si arrabbia”, ma anche da quella interna: una parte minoritaria ma presente della popolazione non vuole recidere del tutto il legame con la sfera cinese. Non a livello politico, ma culturale e simbolico. Tsai è finora riuscita a proseguire la costruzione identitaria taiwanese senza alienarsi quella parte di popolazione. Compito cruciale, non tanto per un tornaconto elettorale visto che si tratta per lo più di sostenitori del Guomindang, ma per salvaguardare la stabilità interna.

Andranno pesate con attenzione le parole di Pompeo: un conto è un tweet di una deputata, un altro quanto dice l’ex segretario di Stato con probabili ambizioni presidenziali. Axios ha riportato che il suo team ha speso diverse decine di migliaia di dollari in media training, mentre lui ha perso 40 chili in sei mesi e appare regolarmente su Fox da dove critica aspramente Biden in materia di politica estera. Per questo c’è chi teme che Pompeo possa usare Taipei come palcoscenico non solo per attaccare la Cina ma anche per attaccare Biden, elemento che potrebbe non essere visto con grande piacere dall’attuale amministrazione. Sui social taiwanesi celebrano in tanti la prossima visita, anche se qualcuno sottolinea che Pompeo è uno strenuo oppositore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. E Taiwan è l’unico luogo in Asia dove i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono legali.

Nei giorni scorsi Trump ha sparato a zero su Biden al raduno dei conservatori americani e ha previsto l’invasione di Taiwan. Non un granché come preambolo.

Altre cose sulle relazioni Taipei-Pechino

Tra Taipei e Pechino è nato anche il caso dell’evacuazione dei taiwanesi, che sta avvenendo via terra e che il Partito comunista aveva detto di poter includere in quella dei cittadini cinesi.

Un elicottero antisommergibile Ka-28 dell’Esercito Popolare di Liberazione è stato avvistato questa settimana per la prima volta nella zona di difesa aerea di Taiwan.

Tensioni tra Pechino e Washington per l’inclusione da parte degli Usa di Taipei nella loro nuova strategia sull’Indo-Pacifico. e per le nuove vendite di armi.

L’ex premier giapponese Shinzo Abe ha chiesto agli Usa di abbandonare la loro storica ambiguità strategica e rendere esplicita la difesa di Taiwan in caso di aggressione diretta.

Il governo vuole punire Huang Yu-ting, che alle Olimpiadi si era allenata con una divisa cinese. Ne avevo scritto nella puntata speciale di Taiwan Files sui Giochi Invernali di Pechino.

Una stuntwoman taiwanese ha optato per il passaporto cinese, primo caso ufficiale nell’industria dell’intrattenimento di Taipei.

Aumentati gli ordini di prodotti taiwanesi dalla Repubblica Popolare a gennaio.

Relazioni Cina-Russia

Per approfondire sulle relazioni sinorusse, invece, ho scritto su Affaritalani e su la Stampa. Qui di seguito una breve sintesi dell’articolo uscito su La Stampa di domenica 27 febbraio.

Come nel 2014 sulla Crimea, che peraltro non ha mai riconosciuto, la Cina si è astenuta sulla risoluzione di condanna alla Russia delle Nazioni Unite. Ma allo stesso tempo sta provando a premere su Mosca per farla trattare con Kiev. Una sorpresa per chi pensava che il castello di retorica della quasi alleanza tra Pechino e Mosca reggesse alla prova del campo. Ma la partnership formale basata sull’ostilità nei confronti di Stati Uniti e Nato, che i cinesi continuano comunque a dipingere come i responsabili della guerra, non si è ancora trasformata in un completo allineamento strategico. D’altronde, l’orso e il dragone sono due animali molto diversi. Tanto Vladimir Putin cerca di ricreare l’antica sfera d’influenza sovietica, quanto Xi Jinping ha fatto del pragmatismo e della ramificazione globale dei tentacoli commerciali, finanziari e diplomatici cinesi il suo marchio di fabbrica.  (…)

Segnali che lasciano pensare che, durante l’incontro del 4 febbraio, possano non essere stati condivisi tutti i dettagli sui piani d’invasione. Possibile, come sostengono diversi analisti, che Xi credesse a un’azione circoscritta al Donbass. Qualcosa di simile a quella “piccola incursione” a cui aveva fatto riferimento anche Joe Biden e che funzionari e media cinesi avevano già iniziato a giustificare (tanto che i media di stato chiamavano già paragonavano Taiwan a Donetsk). E invece Putin ha scelto di arrivare a Kiev, mandando forse un segnale che il ruolo di fratello minore gli va stretto. Come andava stretto a Mao Zedong durante la guerra fredda. Lo scenario è diverso e l’equilibrismo dell’approccio cinese dimostra la volontà di provare a tenere in piedi il “rapporto speciale” con Mosca senza però legare il proprio destino a un’azione seguita con insofferenza che può causare la recisione totale dei rapporti con l’occidente e instabilità su mercati e in regioni nei quali la Cina ha diversi interessi economici. (…)

Dare all’esterno l’idea di un patto di ferro è considerato un vantaggio strategico da Pechino, ma Xi si sente l’unico timoniere e non vuole interferenze nella sua navigazione. Nemmeno se causate da un presunto alleato.

Per sapere invece come il web cinese ha vissuto l’invasione dell’Ucraina anche in relazione a Taiwan bisogna leggere Weiboleaks di Lucrezia Goldin. Qui.

Per approfondire invece su tutti gli aspetti e le zone d’ombra delle relazioni sinorusse c’è il mini ebook numero 10 di China Files, uscito il 14 febbraio.

Altre notizie

Taiwan è pronta ad allentare le restrizioni all’ingresso causa Covid a partire dal 7 marzo e anche quelle ancora attive sul suo territorio.

UMC, altro colosso dei semiconduttori taiwanese, aprirà uno stabilimento a Singapore.

A 40 anni dalla fondazione dell’etichetta discografica Taiwan Rock Records, il fondatore Duan Zhongtan prova a dare una seconda vita al movimento che ha rivoluzionato la scena rock in lingua cinese, con un progetto ambizioso che punta tutto sulla nostalgia e sul risveglio di un sentimento patriottico. Spartiti Rossi, la rubrica sulla musica asiatica a cura di @cinesedabao.

Ho avuto il piacere di parlare di Taiwan durante una lezione di due ore nel corso China Issues presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, a cura di Alberto Di Minin e Filippo Fasulo. Qui un’introduzione dell’incontro.

Di Lorenzo Lamperti

Taiwan Files 19.02.22 – La prospettiva taiwanese sull’Ucraina

Taiwan Files 12.02.22 – Pechino vista da Taipei

Taiwan Files 05.02.22 – Le Olimpiadi secondo Taiwan

Taiwan Files 29.01.22 – La Cina osserva la Russia in Ucraina, ma Taipei non è Kiev

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Taiwan Files 15.01.22 – Commercio, sicurezza nazionale, sondaggi Chengchi, chip, diritti civili

Taiwan Files 08.01.22 – Arcobaleni, zero Covid, estradizioni, Xi/Tsai

Taiwan Files: speciale 2021

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